Il gladiatore va al Congresso
La parola chirurgica di Netanyahu colpisce la linea dell’accordo sul nucleare iraniano. I piani per la chiusura entro il mese sconvolti. Toni churchilliani contro la “peace in our time”. Obama nei guai - di Giuliano Ferrara
Churchill aveva molto sense of humour. Bibi Netanyahu, come ci ha raccontato Giulio Meotti, ne è totalmente sprovvisto. Ma ha il dono della parola chirurgica, e con il discorso di ieri al Congresso degli Stati Uniti (il terzo in ordine di tempo, privilegio condiviso con il solo Churchill) ha fatto sanguinare i sognatori e i politicanti, che spesso sono la stessa persona, intenti a legittimare la via al nucleare degli ayatollah iraniani per un risultato da vendere come la famosa “peace in our time” promessa dopo la conferenza di Monaco da Chamberlain. Sono grato a Obama e al Congresso, a tutto il popolo americano e alle sue istituzioni, per quanto hanno fatto e fanno per sostenere Israele e con Israele un assetto del mondo sottratto ai lupi rapaci del radicalismo islamico, ha esordito il primo ministro. Ma ora la sfida del nucleare iraniano è esistenziale, un medio oriente nuclearizzato è un incubo, e un accordo migliore di questo “very bad deal” è l’alternativa per la quale bisogna lavorare senza tentennamenti, e sono sicuro che alla fine l’America sarà dalla mia parte, ha concluso.
L’atmosfera era da stadio, come si dice. Le ovazioni, in piedi, non finivano mai. Il discorso di cinquanta minuti ha puntato subito sulla natura rivoluzionaria, nel senso di jihadista, del regime islamico militante che ha preso su di sé la missione di conquista e assoggettamento degli infedeli nel lontano 1979. In regime di sanzioni gli iraniani si sono già presi Baghdad, Beirut, Damasco e Sanaa – ha detto Netanyahu nella sua lingua autorevole, pesante, razionale, consequenziale – e i contenuti dell’accordo in dirittura d’arrivo, quelli che puoi verificare su Google, non c’è bisogno di intelligence, sono pessimi.
Se il segretario di stato John Kerry siglerà il testo in elaborazione a Ginevra, secondo il capo di Israele, l’infrastruttura per l’arricchimento dell’uranio sarà parzialmente ridotta ma resterà intatta, solo disconnessa, e per un periodo che nella storia delle nazioni e delle generazioni è un “battito di ciglia”, dieci anni. La fine delle sanzioni non avrà in contropartita alcuna attenuazione dell’aggressività internazionale iraniana. Il contrasto tra gli ayatollah e lo stato islamico è una lotta di potere nel jihad, è un deadly game of thrones (e qui Bibi ha occhieggiato al fantasy drama della Hbo, con un abbozzo di umorismo macabro): in questo caso, e ha inciso le parole fra gli applausi scroscianti, il nemico del tuo nemico è un tuo nemico.
Il gladiatore israeliano non ha risparmiato nessuno degli argomenti efficaci: si è fatto beffe degli ispettori, che possono constatare le violazioni di un accordo ma non fermarle, e il break out, il tempo entro cui si può passare alla bomba, è troppo breve per essere decentemente sopportato. Ha citato il cheating, la truffa, come una caratteristica comprovata dell’atteggiamento e della pratica iraniana in fatto di nucleare lungo gli anni (menzionato il caso analogo e penoso della Corea del nord). Poi ha usato il linguaggio sprovveduto di Kerry, famoso gaffeur, quando ha definito “legittimo” il progresso controllato verso il nucleare di Teheran nell’arco dei dieci anni, vero oggetto dell’accordo di cui, ha aggiunto, “loro hanno bisogno più di quanto noi ne abbiamo bisogno”. Linguaggio semplice ma non spiccio, Bibi, amico personale di mezzo Congresso, ha spersonalizzato il conflitto con la presidenza Obama e così lo ha reso politicamente incandescente. Si è posto retoricamente sopra ogni forma di partisanship, fino a citare le ragioni esistenziali e profetiche del popolo ebraico in nome di Mosè e della regina Ester, e così ha inferto colpi duri al partito dell’accordo. Non ha alluso neanche per un istante alla guerra, così ha potuto rifiutare senza attenuazioni una pace che giudica falsa, fondata su una resa all’inevitabile, la fine di una necessaria resistenza.
[**Video_box_2**]L’Iran spinge disperatamente per un accordo entro la fine del mese, che comprenda l’immediato rilascio delle sanzioni (mal sopportate da Europa, Cina e Russia). L’ex portavoce dei primi negoziati (2003-2005), oggi “studioso” a Princeton, Seyed Hossein Mousavian, aveva spiegato ieri mattina al Daily Telegraph quello che il ministro degli esteri iraniano Zafir non può ragionevolmente rendere pubblico: se non firmate ci ritiriamo dal trattato di non proliferazione nucleare e vi costringiamo da posizioni regionali di forza a una guerra. Netanyahu non si lascia impressionare e mette Barack Obama in seri guai.
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