Così l'Italia può protestare contro l'Iran pigliatutto in Iraq
Dalla delegazione curda in visita in Italia grandi parole di preoccupazione sulla “delega” che la coalizione che combatte lo Stato islamico ha fatto agli iraniani. La via d’uscita per il governo italiano è di mandare aiuti per difendere il regno di Amman dalle infiltrazioni jihadiste
Il governo italiano deve dissociarsi dall’offensiva militare dei pasdaran iraniani e degli sciiti iracheni, guidata da Teheran, che punta a fare di Tikrit, in Iraq, una nuova Guernica. E’ evidente che la strategia, il comando, le truppe impiegate e lo scopo di questo dissennato attacco hanno un solo movente: massacrare i sunniti iracheni di Tikrit e sfregiare con una strage di civili la capitale morale del “triangolo sunnita”. L’Italia, membro della coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, rischia di diventare complice morale di questa politica del “terrore”, con conseguenze nefaste per le sue relazioni con i paesi arabi. Tale politica del “terrore” è, ancora una volta, ispirata e gestita dall’Iran, e inquieta – questo è il punto dirimente – persino e soprattutto il governo del Kurdistan iracheno. Questa forte preoccupazione è stata infatti espressa dal premier curdo Nechirvan Barzani, durante i colloqui avuti a Roma, del cui contenuto il Foglio è venuto a conoscenza, attraverso i canali ufficiosi della delegazione curda.
I fatti: è evidente che se si vuole effettivamente combattere lo Stato islamico è indispensabile attaccare via terra e aria su più fronti contemporaneamente, in Siria e Iraq. Ma i pasticci amletici combinati dal presidente americano, Barack Obama, e dalla sua coalizione impediscono anche solo di ipotizzare operazioni in Siria. Però, anche restringendo l’attacco al solo Iraq, è chiaro che per sconfiggere il Califfato lo si dovrebbe attaccare contemporaneamente sulle direttrici di Erbil, Kirkuk, Mosul, Ramadi, Baji, Samarra, Fallujah e Tikrit, tutte già oggi aggredibili dalle truppe irachene. Naturalmente, questa operazione, l’unica seria, la sola decisiva, necessita di 100-200 mila militari. Dunque non si farà, Obama regnante. Ma ora va messa agli atti una nuova, incredibile, fase della “non strategia” del presidente americano: gli Stati Uniti forniscono senza condizioni all’Iraq miliardi in aiuti militari, e poi lasciano che le indispensabili armi americane siano gestite senza controllo dai vertici militari e politici dell’Iran. Ennesimo ribaltamento obamiano di Von Klausewitz: “La guerra è la continuazione di una assenza di politica”. La Libia insegna.
Sviluppare una strategia “a rosario”, grano dopo grano, in cui si spendono enormi energie attaccando città dopo città, permettendo così allo Stato islamico di spostare di volta in volta decine di migliaia di miliziani da fronte a fronte, ha senso solo se si punta non a riconquistare politicamente le tribù e le città sunnite, ma a punire i sunniti in modo atroce. La città di Tikrit (150 mila abitanti) sarà così trasformata dagli assedianti iracheno-iraniani in un campo di battaglia in cui la popolazione civile sarà massacrata dal fuoco incrociato dei miliziani di al Baghdadi, dell’aviazione irachena e delle truppe sciite iracheno-iraniane. A seguire, lo stesso schema, con conseguenze ancora più drammatiche, verrà applicato alla megalopoli (due milioni di abitanti) di Mosul. Ammesso e non concesso, naturalmente, che Tikrit alla fine venga riconquistata.
E’ questa una strategia chiara se solo si guarda a chi comanda le operazioni dal lato iracheno e a quale sia la composizione delle truppe impegnate nell’assedio di Tikrit. Il comando effettivo è nelle mani del generale iraniano dei pasdaran, Qassem Suleimani, che guida cinquemila uomini. Questo piccolo esercito ha una componente irachena assolutamente minoritaria, ed è composto da pasdaran iraniani e da milizie e reparti regolari che fanno capo politicamente, ma anche dal punto di vista operativo, oltra che al generale Suleimani, a Moqtada al Sadr, il più oltranzista tra i fiduciari iracheni dell’Iran.
Di fatto, l’attacco e l’assedio di Tikrit saranno diretti dall’Iran e secondo gli interessi e le strategia dell’Iran, con una partecipazione solo formale del governo e dei vertici militari iracheni. Il tutto con la totale – e sconcertante – assenza di ruolo e condizionamento, ma con complicità oggettiva piena, degli Stati Uniti e della loro coalizione anti Is, di cui l’Italia è parte non marginale.
La rivoluzione iraniana esportata
Questo quadro sconcertante costituisce la prova provata che l’Iran non è la soluzione del contrasto allo Stato islamico, ma è all’opposto l’origine del problema. Sono stati infatti esattamente questi stessi attori, il generale Suleimani, i pasdaran iraniani e la componente di Moqtada al Sadr, ad avere gettato le tribù sunnite nelle braccia dello Stato islamico con una politica di vessazioni, emarginazione e discriminazione su base religiosa ed etnica da sei anni in qua. La stolida convinzione della Amministrazione americana (e dell’Europa) secondo cui per recuperare politicamente le tribù e le popolazioni sunnite che si sono subordinate all’Is bastasse sostituire Nouri al Maliki col nuovo premier, Haydar al Abadi, è stata ampiamente sbriciolata dai fatti. Abadi non ha fatto nulla per recuperare il favore dei sunniti e il blocco oltranzista sciita è sempre al comando del governo di Baghdad, tanto che occupa con al Maliki la vicepresidenza e controlla i fondamentali servizi segreti. Il fatto è che il problema non era e non è amministrativo, investe la stessa natura conflittuale dell’Iraq, come popolo (o meglio, popoli) e storia secolare, come ben si comprende il grido d’allarme – inascoltato – pronunciato nel 2010 davanti alla Lega araba da Abdel Razzaq al Ali Suleiman, capo della potente tribù sunnita dei Dulaimi (tra le più grandi dell’Anbar, assieme a quella dei Sammar e degli al Dhari) e presidente del Consiglio dei 39 capi tribù e dei 19 notabili iracheni: “Gli arabi devono unire le forze per fermare l’influenza iraniana in Iraq: le distruzioni, le uccisioni, e le espulsioni. Se l’Iraq, Dio non voglia, dovesse perdere l’identità araba, l’Iran si mangerebbe il Golfo dalla sera alla mattina”.
L’analisi è condivisibile, perché i fatti dimostrano che la partita che l’Iran gioca in Iraq va ben al di là della riduzione del paese a un protettorato, ma punta all’obiettivo plurisecolare della Persia nei confronti della Mesopotamia: appunto “cancellare l’identità araba” e imporre l’egemonia irano-sciita in tutto il Golfo. Obiettivo geopolitico che si intreccia sul sanguinario contenzioso religioso sciiti-sunniti che lacera l’Iraq dal 640 d. C.. Questo viene fatto per perseguire la parola d’ordine che Khomeini lanciò nel 1982, quando l’Iraq era pronto ad accettare la propria sconfitta e l’Onu si preparava a sancire il ritorno allo status quo tra i due paesi precedente all’aggressione di Saddam Hussein del novembre 1980. Allora, l’ayatollah rifiutò la pace più che possibile e diede ordine di continuare la guerra al solo scopo di “esportare la rivoluzione iraniana a partire da Baghdad”. Oggi, a partire da Suleimani, arrivando alla Guida suprema Ali Khamenei, passando per il presidente Hassan Rohani e per tutto il quadro dirigente dei pasdaran e del clero combattente, il potere in Iran è nelle mani della generazione che ha sprecato 500 mila morti, sino al 1988, per attuare quella strategia rivoluzionaria di Khomeini.
E’ cambiato il contesto, si è aggiunto l’enorme potere deterrente di una bomba atomica annunciata e possibile, si sono raffinate le tattiche e le strategie. Ma Teheran gioca sempre la stessa partita che intreccia il rafforzamento nazionalistico della nazione iraniana con la superiore esigenza – sempre attualissima – di “esportare la rivoluzione”. Esportazione che peraltro l’Iran pratica con eccellente successo in Siria, in Libano, a Gaza e nello Yemen, oltre che nel cruciale Iraq. Nel frattempo, a Washington come in Europa, ci si illude che l’Iran si sia rassegnato alla strategia della “rivoluzione in un solo paese” e a questa chimera s’ispirano tutte le strategie imperniate sul perdente accordo sul nucleare.
Un’ipotesi che piace anche a Israele
Veniamo all’Italia, parte della coalizione che combatte lo Stato islamico, che non può assistere senza protestare alla nuova Guernica che l’Iran intende infliggere ai sunniti iracheni di Tikrit. Protesta che può apparire vana, quando si ha un alleato americano che fornisce, senza condizione, miliardi di aiuti militari a Baghdad per metterli a disposizione del generale Suleimani e delle mire degli ayatollah. Ma protesta che invece può portare a un saggio e urgente riposizionamento. Il governo italiano può e deve continuare a fornire aiuto – anche più consistente – all’affidabile governo del Kurdistan iracheno. Ma contemporaneamente può e deve dare un segno visibile di non coinvolgimento, neanche indiretto, in questa guerra dissennata. Deve discostarsi da quella parte dello scenario iracheno in cui l’Iran sviluppa una sanguinaria politica settaria, che renderà per decenni il conflitto tra sunniti e sciiti esplosivo in tutto il medio oriente.
[**Video_box_2**]La via d’uscita è chiara e più che onorevole: l’Italia si ponga a difesa delle frontiere della Giordania sunnita contro l’inevitabile tentativo di sfondamento e infiltrazione delle milizie dello Stato islamico. Presiederà così l’unico stato arabo affidabile dell’area e marcherà in modo visibile, ma raffinato, la sua non complicità con le nuove Guernica di cui l’Iran vuole disseminare l’Iraq sunnita. Forte di questo strategico presidio della Giordania – la cui tenuta preoccupa sommamente persino Israele – l’Italia potrà giocare un ruolo pesante (e di prestigio) quando – e se mai – gli Stati Uniti e l’Europa, assieme ai paesi arabi alleati, articoleranno finalmente una strategia di contrasto effettivo al Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. E non di massacro dei sunniti iracheni.
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