foto LaPresse

Il sarto del presidente

Salvatore Merlo

Codici estetici, mutande, malacarne e una razza scomparsa. La borghesia palermitana raccontata con ago, filo, abiti e aneddoti su Mattarella. Tipi italiani. Chi è Pippo Ferina - di Salvatore Merlo

Palermo. Spiritosamente vago, gentilissimo e riservato, a un certo punto svela ogni cosa in una singola frase: “Sono stato il sarto della Palermo perbene, non della Palermo ricca”. E allora guarda nel vuoto, come al ricordo lontano, irraggiungibile, d’una città borghese ed elegante, che certo già viveva la degradazione estrema dei quartieri, i crolli, la paura e la fuga verso la periferia per lasciare posto alle ruspe e ai picconi degli speculatori mafiosi, “ma intanto da me venivano Benedetto Colajanni, il nipote di Napoleone Colajanni, e poi Enzo Sellerio, che allora insegnava all’università e già scattava per Vogue quelle fotografie che poi sarebbero state esposte a New York. Sellerio sarà stato il mio secondo o terzo cliente. Diceva che in Italia ci sono una ‘destra sinistra’ e una ‘sinistra maldestra’. Ma non è verissimo? Erano uomini raffinati. Una razza scomparsa. Da me venivano anche i giornalisti dell’Ora, Salvo Licata, Mario Genco, Giuseppe Piazza, Mario Farinella, e gli attori del Teatro Massimo, e poi Pietro Virga, il grande giurista, i presidenti del Tribunale, i professori, gli intellettuali…”. E mentre parla, quest’uomo di quasi ottant’anni, il volto ironico di ragazzo invecchiato, magro, con lo sguardo vivo nelle orbite ossute, un fazzoletto al collo sulla giacca ruvida di tweed, maneggia tutti questi nomi come cose ovvie, naturali, e riposanti. E lo fa nella misura d’una certa chiusa dignità siciliana, ma con familiarità e tenerezza, e con tutti i rispetti. “C’era una bella borghesia a Palermo, come c’era una bella borghesia, e intellettuale, anche a Catania, fatta da uomini eleganti come Filippo Anfuso. Sono stati gli anni in cui si compravano le cravatte inglesi in via Maqueda, da Pustorino, un negozio magnifico che non c’è più. Anche Cossiga se le faceva mandare a Roma, le cravatte di Pustorino. Le camicie invece si facevano fare da Cassisi, a mano, o si acquistavano da Fenicia, in corso Calatafimi, che era una fantastica azienda, di buon gusto. C’erano le grandi librerie, le nicchie d’intelligenza, e poi il teatro… il teatro”. Di quel tempo, quando lui faceva anche il costumista per le avanguardie artistiche, il vecchio sarto di Palermo esprime un senso vivace e quasi carnale, ne subisce il fascino e la malìa. E forse è per questo che a un certo punto Pippo Ferina sorride. Così il sarto del presidente della Repubblica, l’uomo che da vent’anni taglia i panni addosso a Sergio Mattarella cercando una logica alle sue misure (“è tutto ‘torto’ come quelli che stanno troppo a lungo ripiegati sui libri”) dice che “il presidente non porterà niente di concreto a Palermo. Non è uomo che porta, né è uomo che si porta qualcuno dietro. Qua manco lo votavano, perché non fa favori. Mi ricordo che a Palermo aveva una segreteria sui generis, fatta per respingere, non per accogliere. Ma una cosa importante Mattarella l’ha già fatta per la sua città. Lui, al Quirinale, fa tirare su la testa a ciò che rimane della Palermo elegante e perbene, quella città sempre maltrattata dalla Palermo ricca e permale. Malgrado, per la verità, la Palermo ricca non sia più così ricca”, dice. Poi la voce gli si abbassa d’un tono: “… ma resta permale”.

 

E così, mentre le sirene delle ambulanze che attraversano la strada urlando ci trafiggono, assieme ai clacson, alle frenate improvvise, e al camion col cassone aperto e carico d’immondizie al vento, riaffiorano alla coscienza il malessere, i guasti, si rimugina l’assurdo e si palpa il passato. “Palazzinari e mafiosi erano la Sicilia, prima. Ora ci sono i burocrati regionali. I mafiosi oggi sono in mutande, ma i burocrati sono forse meno responsabili della bancarotta della Sicilia?”. E il vecchio sarto descrive l’ascesa di una classe rapace che costruì Palermo secondo geometrie d’urbanistica mafiosa e che sfruttò lo sviluppo economico per fare gli affari propri, un mondo anche questo ormai in agonia sotto la cenere fredda della crisi, che a Palermo ha il suo volto più cupo nelle serrande abbassate, tra i negozi del centro storico che chiudono uno dopo l’altro. “Siamo tutti vittime cieche del todo modo palermitano”. Una mafia sfacciata, chiassosa, poi persino esplosiva, circondata e intrecciata agli uomini del sottopotere politico, gente che era riuscita ad avere una tale quantità di sottopotere burocratico da riuscire a sotto-dirigere la politica regionale siciliana, a manipolare alchimie e combinazioni politiche, a farsi i fatti suoi, ad arricchirsi. “Cu manìa nun pinìa, si dice in Sicilia. E alla regione, da sempre, si ‘manìa’ forte”. E viene naturale portarsi la mano al naso senza accorgersene, contemplando quest’orribile spettacolo, nel giorno in cui a Palermo la polizia ha arrestato per estorsione e corruzione il presidente della Camera di Commercio nonché vicepresidente della Gesap, la società che gestisce i servizi dell’aeroporto, Reberto Helg, che aveva chiesto una tangente di centomila euro a un commerciante. Etica ed estetica, cultura e morale si tengono, dice Ferina. E forse solo un sarto come lui, che ha studiato e fatto il liceo classico, che cita Montanelli e Longanesi (“la democrazia è quella cosa che sei imbecilli contano più di quattro intelligenti”), ed è pure spiritoso, può riconoscere il rapporto sottile che sempre c’è tra l’abito e il monaco, tra l’eleganza (“che non è mai sfoggio”) e il buon costume, tra la sprezzatura e il pudore: “Esiste un mondo trionfante di efficienti cafoni, insensibili alla grazia estetica e attenti solo al valore monetario delle cose”, dice. Ed è ancora il mondo di Calogero Sedara e del Gattopardo, “un grigio diluvio che molte cose belle e rare sommerge miseramente”, un mondo libero dalle mille riserve e delicatezze, dai dubbi che l’onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini. E davvero sembra che Ferina, questo anziano signore dal sorriso sottile e umano, viva in un altro spazio, un altro tempo, un’altra arte, in un mondo che il sentimento malinconico della fine intreccia con l’eleganza e l’abilità manuale. Esprime infatti un disagio, uno scontento, un sapore amaro che gli sale fin dentro il naso.

 

Ma come taglia gli abiti, Ferina taglia anche i pensieri. “Un giorno il Barone Gangitano, che era un gran signore, proprietario terriero, azionista del Credito siciliano, venne da me per la prova di un abito. Era forse un eccentrico come molti aristocratici siciliani, correva anche con le automobili, ed era eccentrico per quella forma mentale che si chiama insularità, un atteggiamento dello spirito, un carattere, un modo di vedere le cose per estremi, prima di essere un dato geografico. Ebbene quella volta il Barone s’incrociò con un altro mio cliente che doveva essergli sembrato un malacarne, un uomo che mancava di civile eleganza e di sprezzatura, cioè dell’arte pudica di nascondere (perché l’abito, il tessuto, è una materia che deve mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo). Ecco, il Barone lo guardò andare via, aspettò un attimo ancora, e poi mi consegnò queste parole: ‘Lei deve scegliere. O diventa una persona importante in città, ma rischia di non fare i soldi. Oppure fa entrare quelli così, e magari fa i soldi ma non sarà mai importante’. E io queste parole me le ripeto, ancora me le rivivo tutti i giorni qua a Palermo”. Poi Ferina si mette a ridere, d’un sorriso allegro e complicato, che esprime molte sensazioni, come a un improvviso pensiero: “Non ho mai avuto un cliente in manette. Una volta dissi a un tizio, un potente, molto chiacchierato: ‘Guardi non ci venga da me perché se viene rischia di fare brutti incontri. Ci sono molte persone perbene’. Con i carabinieri ho avuto a che fare solo una volta. Si interessavano a me, erano incuriositi perché frequentavo i giornalisti dell’Ora, che erano considerati di sinistra, una cosa da ridere: erano gli anni Settanta e quelli pensavano fossi una specie di estremista extraparlamentare. Ma ovviamente non lo ero, semmai io sono sempre stato un liberale, come i ragazzi dell’Ora non erano di sinistra, ma dei giornalisti liberi in una città ‘accupata’ dalla mafiosità”.

 

[**Video_box_2**]E Pippo Ferina era bambino in una Sicilia contadina in cui forse ancora gli uomini venivano destinati al mestiere di sarto perché i padri pensavano non avessero “balìa” per fatiche più dure, al secondo anno di ginnasio fu bocciato e lasciò la scuola. “Il nostro patrimonio sono state le mani intelligenti”, dice suo fratello Salvatore, Toti, settantacinque anni, anche lui sarto, “ma per signora”, che lo ascolta parlare e ogni tanto distilla una frase, e vede chiaro dove gli altri trovano la nebbia. “Mio fratello è stato segretario della Confederazione degli artigiani qui a Palermo”, racconta Pippo parlando di Toti. “Ma era troppo onesto. E lo prendevano per il culo. Io, la cosa più politica che ho fatto nella mia vita è stata andare ai funerali di Giuseppe Bottai, che era un uomo intelligente. In quegli anni cominciava la crisi dell’artigianato, così una volta incontrai Sergio D’Antoni e gli dissi: ‘Tu hai fatto più danni della mafia’. A Caltanissetta, con il sindacato, D’Antoni aveva combattuto le prime battaglie contro gli artigiani che a suo modo di vedere sfruttavano i ragazzi nelle botteghe. Ma quello, accidenti, non era sfruttamento, era l’apprendistato, c’eravamo passati tutti, ed era l’unico modo d’imparare il mestiere. Adesso non s’impara più niente. I sarti stanno scomparendo. Qua siamo soli, presidiamo un’immobile catastrofe”. E allora lentamente tira fuori vecchie riviste di moda degli anni Sessanta, e articoli che parlano di lui, dei premi che ha vinto, e ancora immagini d’indossatori, di smoking e blazer, completi a due e a tre bottoni. E sono urti e onde di memoria sprigionati da immagini d’eleganza e vitalità borghese, palermitana, sono sfilate di moda, disegni, modelli, e tutto viene fuori da una specie di macchina del tempo, da una vecchia ventiquattrore blu, molto impolverata, su cui il sarto di Palermo fissa l’occhio lontano, mentre una ruga profonda e verticale gli si disegna sulla fronte. Così descrive un rovinoso smottamento di lingua e di classe: “In questa città scompare la borghesia, scompare la classe media e colta, scompaiono gli artigiani che fabbricavano le cose belle, i manufatti che quegli uomini sapevano apprezzare. In giro ci sono sempre meno uomini, e sempre più mucchietti di astuzia, di abiti mal tagliati, di piccioli e d’ignoranza. E’ colpa della politica, del cattivo gusto, degli esempi sbagliati, non so di chi è la colpa, ma è così. Per me la politica qui in Sicilia è come il teatro di Pirandello, un gioco delle parti, e infatti me ne sono sempre tenuto lontano. Per quanto mi riguarda, il potere, quando l’ho visto, era sempre in mutande, nel mio camerino di sarto”. E per lui date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio. Inclinano alle trame, piuttosto, e alle dilatazioni narrative. A proposito di potenti in mutande: “A Roma, dove ho lavorato da ragazzo, prima di andare a bottega da Caraceni, ero da Amedeo Cenci, un grande sarto che aveva l’atelier a Largo del Tritone. Lì veniva Tambroni, il ministro, che era sempre elegantissimo. Mi ricordo che verso la fine era come malato, divorato dall’interno, smagrito. Gli mettevamo gli spilli ai pantaloni e lui si lamentava: ‘Dicono che sono fascista. A me, che ho fatto la resistenza!’. Morì poco dopo”. E Mattarella? “E’ un simbolo e un esempio per la città. Un uomo in cui tutto, il tratto, la compostezza, la calma, è istituzionale. Come gli abiti che gli ho sempre fatto, sempre a tre bottoni, grigio, grigio scuro, quasi nero”. E Ferina forse si è dispiaciuto che il presidente, nel giorno in cui saliva al Quirinale, portasse un vestito di confezione e non uno dei suoi. E non gli cadeva bene quel vestito. “Una volta Enzo Sellerio voleva comprarsi una giacca di confezione in un negozio. ‘Guardi, queste sono tutte uguali’, gli disse il commesso. E Sellerio: ‘Ma io non sono uguale’. E se ne andò”. Impossibile chiedere al sarto se il presidente della Repubblica abbia il cavallo alto o basso, nemmeno a parlare poi del “disturbo”: pende a destra o pende a sinistra? Qui Ferina si fa palermitano, dunque muto. Lo lascio così, che ancora sorride senza nulla rivelare del suo più illustre cliente. “Ai miei tempi, ‘quello’, non era un disturbo”, si limita a scherzare. E dunque resta così, spiritosamente, ma silenziosamente, appeso a questa visione pensile.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.