Il governo della Troika renziana
Accentrare molto, delegare poco. Chi conta a Palazzo Chigi (tre gatti). Chi è diventato una figurina (molti). Ministri che pesano meno dei consiglieri. La sostanziale inutilità del Cdm. Il mistero Lanzetta. Appunti di governo - di Claudio Cerasa
La notizia è piccola, anche se a suo modo gustosa, ma descrive bene un tratto ormai cristallino e decisivo del governo Renzi, e spiega in modo genuino perché in tutte le rilevazioni demoscopiche il consenso popolare accreditato al governo non solo è infinitamente più basso rispetto al consenso accreditato al presidente del Consiglio ma è anche infinitamente più basso rispetto al consenso complessivo che aveva il governo che ha preceduto quello del Rottamatore (il non proprio fulminante governo Letta). La notizia riguarda la misteriosa rimozione di un piccolo problema legato alla fuoriuscita dal governo di un ministro che ha fatto notizia solo nel giorno in cui ha scelto di lasciare l’esecutivo – la non indimenticabile Maria Carmela Lanzetta, che il 25 gennaio ha abbondanato gli Affari regionali per andare a ricoprire la prestigiosissima carica di assessore regionale alle Riforme istituzionali della regione Calabria, salvo poi rinunciare alla stessa carica in polemica con lo stesso presidente che l’aveva chiamata, un genio assoluto. E da quel giorno in poi non solo nessuno ha più sentito la necessità di trovare un sostituto agli Affari regionali ma nessuno ha prestato attenzione – salvo alcuni retroscenisti che hanno immaginato per quel ruolo ora Graziano Delrio ora Anna Finocchiaro – al fatto che al governo Renzi mancava un ministro.
La storia, in piccolo, ci dice molto di alcune dinamiche del mondo Renzi per almeno due ragioni. La prima ragione è che a un anno dalla nascita dal governo Leopolda si può dire senza paura di essere smentiti che gran parte dei ministri renziani ha un ruolo non operativo, in diversi casi quasi inutile, si muove più da portavoce del ministero che da ministro stesso, rilascia interviste solo per dire formidabili ovvietà (non tutti, la gran parte), sa che nessuna riforma (regola di Palazzo Chigi) può essere annunciata prima che la stessa riforma sia annunciata da Renzi da Bruno Vespa o da Fabio Fazio e la verità è che il ministro dell’èra renziana, tranne poche ed evidenti eccezioni, ha accettato ormai da tempo, cercando per quanto possibile di trarre vantaggio da questa posizione, di essere una graziosa figurina di cui solitamente neanche si conosce la voce. Fino a che Renzi fa gli straordinari, funziona. Ma Renzi riuscirà a fare sempre gli straordinari? Ed è un bene per il governo che il presidente del Consiglio debba vivere in uno status straordinario? Chissà. Il risultato di questa dinamica che abbiamo descritto è insieme la causa e la conseguenza di uno dei tratti culturali chiave dell’èra renziana. Un tratto che potrebbe coincidere con una definizione che ci pare appropriata: l’epoca delle non deleghe, l’età dell’accentramento totale. Per accentramento non si intende però solo l’accentramento nelle mani di Renzi ma si intende più precisamente un accentramento totale delle attività di governo nelle mani delle persone più vicine al presidente del Consiglio. Il governo Renzi, come scriviamo su queste pagine da mesi, è sintetizzato più dai volti che transitano a Palazzo Chigi che dai volti che transitano in Consiglio dei ministri e non è un mistero che i capi di dipartimento di Palazzo Chigi e i consiglieri di Renzi contino infinitamente più dei ministri del governo. Andrea Guerra, consigliere per lo Sviluppo, conta dieci volte più del ministero dello Sviluppo. Yoram Gutgeld, Filippo Taddei e Tommaso Nannicini, consiglieri per l’Economia, per le Politiche fiscali e per il Lavoro, contano dieci volte di più dei ministri del Lavoro, dell’Economia e dei viceministri e sottosegretari con delega alle Politiche fiscali, Armando Varricchio, consigliere diplomatico di Renzi, conta almeno quanto il ministro degli Esteri, e a volte anche di più. E se a questo si aggiunge che, complice il numero ridotto di ministri, molte deleghe importanti si trovano nelle mani di Renzi e dei suoi sottosegretari e dei suoi politici più fidati (Sandro Gozi ha le deleghe sulle Politiche comunitarie, Luca Lotti ha le deleghe sul Cipe, oltre a tutto il resto, Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, triangolando con Boschi, è diventato il ministro ombra dei Rapporti con il Parlamento) si capisce perché all’interno della geografia di governo molti ministri contino più o meno come il secondo portiere in una squadra di calcio (entrano in campo cioè solo in virtù di cause di forza maggiore).
[**Video_box_2**]Da questo punto di vista il caso Lanzetta, con la sua probabile conclusione che ora descriveremo, sembra essere un sigillo perfetto sul governo senza deleghe. Manca un ministro. Se ne va. Nessuno se ne accorge. E, invece che sostituirlo subito con un altro, Renzi pensa a eliminare il ministero e a trasferire le sue deleghe (che sono importanti, perché volendo dal ministero degli Affari regionali si governa un pezzo significativo del paese, si governano 130 miliardi l’anno di fondo sanitario, si governano i patti di stabilità delle regioni, si governa il fondo nazionale del welfare, si governa il trasporto pubblico locale) a un qualche dipartimento di Palazzo Chigi. Il dipartimento al quale Renzi ha pensato è quello per l’Attuazione del programma che, indovinate un po’, si trova all’interno delle deleghe di uno dei pochi ministri non figurina del governo: Maria Elena Boschi. Boschi, si sa, è ministro delle Riforme, ha la sede del ministero a Largo Chigi, ma per semplificare il lavoro, in sintonia perfetta con l’èra dell’accentramento, da qualche mese ha avuto la possibilità di avere un suo ufficio anche all’interno di Palazzo Chigi. Accentrare, accentrare e accentrare. Il profilo del governo Renzi, nel bene e nel male, lo si spiega anche così.
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