La spaventosa responsabilità civile
Perché il fronte dei giudici terrorizza più di un racconto di Poe. Se Berlusconi per vent’anni ha parlato da lupo e agito da agnello, conducendo una battaglia quasi solo simbolica, il ministro Orlando agisce come un agnello un po’ più robusto e dentuto ma parla, inspiegabilmente, come un abbacchio.
In un racconto di Poe, “La Sfinge”, un uomo vede dalla finestra un mostro terrificante, più imponente di una nave da guerra, che discende sul pendio di una collina. Scopre poi che si trattava di una sfinge testa di morto, una farfalla piuttosto inquietante ma pur sempre una farfalla, che si arrampicava su un filo di ragno. Solo per via di un’illusione ottica gli era apparsa così grande da oscurare la collina. Più mi appassionavo al dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati, più mi tornava in mente questo racconto. Vezzi letterari, dirà qualcuno: non era più semplice evocare la montagna che partorisce un topolino? E no, qui bisogna aver cura di scegliere bene i simboli, tanto più che la battaglia sulla responsabilità civile, si può dire, non vive che di quelli. E’ così oggi, e in fondo era così anche nel 1987, l’anno del referendum tradito. Tutto sta a capire che uso si fa delle armi simboliche. Ho ripreso in mano l’utilissimo “Storia di un referendum” di Raffaele Genah e Valter Vecellio. Uscito un mese dopo la vittoria del sì, il libro ricostruiva la campagna referendaria e includeva un’antologia del dibattito dell’epoca. Molte pagine danno un brivido di déjà-vu degno di un racconto di Poe. Il fronte del no agitava già allora le stesse sfingi testa di morto gabellate per mostri: il richiamo ricattatorio ai giudici che rischiano la vita, il sospetto di una vendetta orchestrata dai ladri (i politici) contro le guardie, lo spettro del giudice intimidito dall’imputato ricco, le profezie sul collasso dei tribunali, la denuncia lacrimevole di un clima punitivo. I difensori del sì erano più cauti sugli effetti di un’eventuale legge, ma altrettanto persuasi del suo valore di simbolo: era l’occasione per aprire una discussione nazionale sul ruolo del magistrato e sui confini dell’azione giudiziaria. Uno scontro simbolico quanto si vuole, ma con gli stendardi ce le si dava di santa ragione. Andò a finire come sappiamo, ma fu se non altro un grande momento di verità.
Oggi le cose sono diverse, e non solo perché non c’è stata l’occasione, in sé così teatrale, di un referendum. Se Berlusconi per vent’anni ha parlato da lupo e agito da agnello, conducendo una battaglia quasi solo simbolica, il ministro Orlando agisce come un agnello un po’ più robusto e dentuto ma parla, inspiegabilmente, come un abbacchio. La timidezza con cui difende la sua stessa legge ha del surreale. Rassicura i magistrati che non devono arrabbiarsi, che la legge non cambierà il loro lavoro, che c’è sempre modo di ritoccarla, che la si potrà correggere (un maligno dirà: sabotare) per via di giurisprudenza, che tanto saranno dei giudici a giudicare altri giudici, e che avranno presto in dote nuovi strumenti d’indagine a segno che la politica si fida di loro. Se il referendum servì ad aprire un dibattito, Orlando mostra una gran fretta di chiuderlo. Ha in mano poco più di un simbolo, e neppure vuole usarlo. Nel 1987 la questione era discussa come un segmento del problema più vasto della responsabilizzazione del pm: si parlava di meccanismi di carriera, di controlli di professionalità, di riforma del Csm, gli audaci sfioravano perfino il tabù dell’obbligatorietà. Ora è più comodo scambiare la parte per il tutto, e qualche incauto festeggia dicendo che finalmente i nostri magistrati saranno responsabili come nel resto del mondo civile, omettendo che i magistrati del mondo civile quella concentrazione abnorme di potere e di arbitrio se la sognano.
Ecco perché la montagna che partorisce un topolino mi pare un simbolo inadatto. E’ semmai un topolino che, ingigantito ad arte, impedisce di vedere la montagna, proprio come la farfalla di Poe eclissava la collina.
Il Foglio sportivo - in corpore sano