Gustavo Selva (foto LaPresse)

Addio Gustavo, adesso "Radio Belva" ha smesso di trasmettere per sempre

Stefano Di Michele
A 88 anni è morto Gustavo Selva. Giornalista prima, politico poi con An, anche se democristiano. "Quando i giornali di sinistra stavano due o tre giorni senza attaccarmi mi preoccupavo", diceva, lui che fascista mai è stato e che i comunisti  avevano celebrato come nessun altro, facendo del suo “Radio Selva” il mitologico “Radio Belva”.

Però, in fondo, alla fine a Gustavo Selva forse i comunisti non stavano del tutto antipatici. Ti guardava, ti scrutava, soppesava la provenienza: “Ah, tu sei dell’Unità…”. Sorriso bonario – di “Belva” satolla, che osservava compiaciuto ma benigno il pasto sfuggito. In fondo, i comunisti lo avevano celebrato come nessun altro – facendo del suo “Radio Selva” il mitologico “Radio Belva” (si racconta che l’idea venne a Luigi Pintor) degli anni Settanta, elevandolo al rango di avversario: così da ritrovarsi nelle battute di Fortebraccio, così da finire nella striscia di Staino su Linus: il povero Bobo, disciplinato compagno militante, che la alle prime luci dell’alba ascolta il suo gierredue e si ritrova tra il gelo e il vento – Siberia nel tinello, a motivo di mattutina (e non insolita) ventata polare e anticomunista. Quando lo incontravi a Montecitorio –  presidente della commissione Esteri, capogruppo dei finiani allora compatta falange – giocava a fare il vecchio giornalista bonario, rideva divertito di quei giorni quando tutta la politica nazionale intorno all’incrollabile Muro si dannava: Muro che lui, a vanto dei valori democratici e occidentali, va da sé, presidiava tra Bruxelles, Vienna e Bonn. “Quando i giornali di sinistra stavano due o tre giorni senza attaccarmi mi preoccupavo”, ancora ridacchiava divertito su un divano del Transatlantico.

 

“Radio Belva” – con suo “rullar di tamburi” che ne precedeva l’inizio – e anni dopo il felicissimo “Telekabul” appioppato al tiggì di Sandro Curzi ne hanno marcato l’identità, ne hanno fatto un personaggio, e ne fanno fede i titoli di certi suoi libri – un piccolo mito della nostra Prima Repubblica. Esperienza che mai dimenticò, “la più esaltante della mia vita” – certo molto rivangata, forse persino con qualche rimpianto dei nemici di allora. Lui, il democristiano di destra graniticamente anticomunista – e forse ai democristiani di sinistra ancora più che ai comunisti inviso – transitato nel partito post fascista dove la rigogliosa fiamma ora languiva stentata (“sembra quella  della Pibigas”, ebbe a lamentarsi sconsolata Donna Assunta), ora improvvisamente prendeva nuovo maschio vigore, scuoteva la testa: “Gente abituata a gridare nelle piazze, che non è cambiata, è rimasta missina dentro. Da vecchio liberale cerco di educarli alla democrazia, ma loro sono quelli che sono…”. E quelli che sono – e che  parevano quelli che erano – nel mirino lo mettevano, ché col vecchio democristiano piazzato a fare il capo di tutta la loro truppa parlamentare poco s’intendevano. “Lì, in tanti, sono proprio rimasti fascisti…”. Perché fascista, e ne faceva giusto vanto, Gustavo Selva mai lo fu, e anzi sempre raccontava dei bravacci in camicia nera che a Imola, da giovane, gli avevano procurato qualche danno fisico. Mica per caso, sul Secolo, la sua rubrica aveva per titolo: “Io dico la mia, voi dite la vostra”, ma figurarsi quelli che impressione…

 

La sua amata Dc – forse un po’ troppo a sinistra sbandava, per i suoi gusti, ma di meglio non c’era, e certo in seguito di meglio non trovò – finì nel rogo di Tangentopoli. An –  in cui arrivò in gloria di chi missino non era mai stato, quando i missini per Fiuggi passarono – è anch’essa ormai polverizzata. Era quasi già storia finita, qualche anno fa, quando Selva un po’ arditamente salì su un’ambulanza per andare in uno studio televisivo, con gran scandalo bipartisan, da Alemanno alla Turco. Lui alla fine ammise, con Giancarlo Perna – che gli chiedeva, sul Giornale: “Col senno di poi, come ti giudichi?”: “Un coglione. L’ora del coglione arriva per tutti almeno una volta nella vita”. Finì con An, finì l’anno dopo anche la sua storia parlamentare. Ogni tanto, anni fa, lo si incontrava ancora a passeggio nei pressi di Montecitorio – abitava in una bella e accogliente casa, proprio lì dietro. Gustavo “Belva” non mostrava più artigli, solo un’ironia leggera, forse un po’ rassegnata. “Ho scritto un giallo, te lo faccio avere, visto che sei un lettore. Spero ti piaccia”. Poi, pure l’ironia sparì – dopo un lutto che lo aveva molto segnato: un bisbiglio cortese, un sorriso più faticoso, una stretta di mano leggera, con tutto il peso di un dolore fortissimo e degli anni che si inerpicavano. Poi, non lo incontrai più. E adesso, si legge, “Radio Belva” ha davvero finito di trasmettere per sempre.

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