Guardando la foto di Andreas Lubitz, il copilota che sente il “disio” di scendere con gli altri
Guardo la foto del Golden Bridge. Andreas Lubitz ha una bella faccia in quella foto. Lo scenario del ponte è grandioso, lui è una figurina minimalista, sapore di vacanza. Non è uno, nessuno e centomila, come nel dramma di Pirandello. E’ tutti. Vuole essere come tutti, alla Francesco Piccolo. La sciarpetta. Gli sneakers modesti, eleganti, da preparazione per la mezza maratona. Mezza maratona, che idea, fitness al posto dell’eroismo, percorso utile al posto della corsa estrema. Andreas Lubitz, per motivi suoi che non si conosceranno mai, ci ha presentato l’abisso nella sua forma moderna, anche tecnologica. Un chiavistello, la porticina blindata, solitudine e silenzio, nemmeno un fiato è registrato nella scatola nera, e il mondo a immagine di una montagna finalmente si avvicina, apocalitticamente si rivela a una mente che si spegne e che lo spegne per sé e per uno scampolo di umanità.
Era già l’ora che volge il disio/ai naviganti e intenerisce il core/lo dì che han detto ai dolci amici addio;/e che lo novo peregrin d’amore/punge, se ode squilla di lontano/che pare il giorno pianger che si more. Ecco, solo gli endecasillabi del Purgatorio potevano darmi una spiegazione di quella pietosa malinconia che ha partorito una spietata depressione, così la chiamano, nel copilota che non voleva tornare a Düsseldorf. I palermitani, razza speciale, quando lasciano un ambiente salutano i presenti dicendo un vitale: “Sto tornando”. La cosa mi ha sempre incantato. Ma a Düsseldorf.
Guardo la foto mentre volo attraverso l’Europa, leggo delle ipotesi su drammi d’amore, su malattie mentali (ma non sono la stessa cosa?), e penso con dolore ovvio allo scampolo d’umanità, i passeggeri. In aereo siamo non proprio al nostro meglio. Siamo i nostri piedi scarpati che spuntano lungo il corridoio, siamo una teoria di nuche capellute, pancette costrette, scambi di cortesia limitata dalle circostanze con il personale di bordo, siamo corpi in balìa pressurizzata di sistemi d’alta quota e di atterraggio, e c’è pur sempre qualcuno che ci porta, qualche Palinuro al timone responsabile della rotta diurna e notturna. Siamo come tutti, che lo vogliamo o no.
Cartesio ha (come ognuno sa) emancipato il pensiero costretto nella realtà oggettiva dalle regole filosofiche della scolastica medievale, e ci ha messi in questa situazione di potere mentale assoluto. Ma che avrà pensato Andreas Lubitz, nei suoi vent’anni di bamboccione? Penso, dunque non sono. La potenza inescusabile della sua soggettività mentale si è impadronita di lui, la chiamano depressione, e l’acchiappo della realtà nella discesa infernale si è colorato del nulla, nella particolarità prigioniera del silenzio finalmente raggiunto in quel cockpit.
Molto della saggezza antica, in specie le inibizioni del potere del soggetto, ha riguardato questo: mettere sotto controllo di un’autorità superiore quello strano e complicato arnese che è l’essere umano. Il nichilismo è purtroppo il portato di quel gesto di emancipazione, di liberazione, di rifiuto del dolore e del timordiddio che fa scattare il chiavistello, fa rotta con un carico vertiginoso dal cielo verso il centro della terra, fenomeno misterioso che noi chiamiamo depressione.
Il Foglio sportivo - in corpore sano