La performance in gabbia di Coco Fusco e Guillermo Gómez-Peña, presentata per la prima volta a Madrid nel periodo dell’Expo colombiano di Siviglia del 1992

Il selvaggio Expo

Sandro Fusina
In quale forma, con quale mezzo, se in coppia o separati è difficile a dire, ma non è azzardato scommettere che Coco Fusco e Guillermo Gómez-Peña si faranno vivi presto: l’ambiente degli Expo e il tema di questo nostro Expo milanese sembrano disegnati e tagliati sulle loro misure.

In quale forma, con quale mezzo, se in coppia o separati è difficile a dire, ma non è azzardato scommettere che Coco Fusco e Guillermo Gómez-Peña si faranno vivi presto: l’ambiente degli Expo e il tema di questo nostro Expo milanese sembrano disegnati e tagliati sulle loro misure. Ai loro occhi l’Expo può ben fungere da rappresentazione spazio-temporale di due versi di una poesia che Gómez-Peña ha scritto per il barrio, il district della Mission a San Francisco: il luogo di “una miriade di confini, invisibili e aperti, porosi e pericolosi”. In coppia, Coco e Guillermo approdarono in Europa in occasione dell’Expo colombiano di Siviglia del 1992. Avevano, come molti, programmato di andare avanti e indietro da una sponda all’altra dell’Atlantico, almeno tante volte quanti erano stati i viaggi di Cristoforo Colombo. Ma non andò così. Come probabilmente non si ricorderà (gli Expo del XX secolo, anche i più riusciti, non hanno lasciato molti ricordi) per celebrare la scoperta dell’America il Bie (Bureau International des Expositions) nel 1992 aveva assegnato, prima volta nella sua storia, l’organizzazione di un Expo di prima classe contemporaneamente a due città, Siviglia in Spagna e Chicago negli Stati Uniti. Chicago, così lontana da ogni rotta colombiana e dal mare, aveva in merito una sua tradizione: anche se con un anno di ritardo (non per rettificazione storiografica, ma per disfunzioni organizzative) aveva celebrato nel 1893 la scoperta dell’America con un’esposizione internazionale di cui si ricorda soprattutto l’invenzione della ruota panoramica. Poi, in piena crisi mondiale, aveva celebrato nel 1933 sia l’avvio del New Deal rooseveltiano sia il quarto decennale della prima esposizione colombiana, utilizzando l’impulso della luce di una nuova stella arrivata sulla terra dopo un viaggio di quarant’anni alla velocità regolamentare di tre per dieci all’ottava metri al secondo, esattamente il giorno e l’ora della inaugurazione dell’Expo. Come poteva il Bie non sospettare che ruota panoramica e luce astrale non fossero la conferma della necessità degli Expo nell’armonia celeste? Con tali precedenti mistici astronomici, come negare alla città dei macelli, dei gangster e dei grattacieli un’esposizione proprio nel quinto centenario della scoperta dell’America? Poi era stata Chicago stessa a recedere. Per ritardi organizzativi, si dichiarò. Per paura, si insinuò: considerato l’esito finanziariamente disastroso che le sfere celesti avevano decretato per l’esposizione di New Orleans del 1984. Siviglia non rimase sola: anche l’orgoglio colombiano di Genova fu blandito con un’esposizione, se pur specializzata, di seconda classe.

 

In margine all’esposizione di Siviglia un’iniziativa intitolata “Edge 92 biennale” invitò a lavorare Fusco e Gómez-Peña, due artisti che nella loro opera multimediale si erano segnalati sulla questione dei confini e del meticciato culturale. Guillermo Gómez-Peña è cresciuto e ha studiato a Città del Messico. Artista e scrittore appassionato al fenomeno dei borders, dei confini tra le culture, in particolare la cultura messicana e la cultura dei gringos, Gómez-Peña aveva ricevuto inaspettatamente l’anno prima la ricca e prestigiosa borsa della MacArthur Fellowship. Coco Fusco, nata negli Stati Uniti, ma da genitori cubani, laureata nell’antica selettiva e libertaria Brown University di Rhode Island e detentrice di un master in arti visuali della non altrettanto antica, ma al momento molto più influente Università di Stanford, era al suo esordio come artista. Insieme decisero di restare, come si dice sui giornali, sul pezzo. Presentarono un progetto dal titolo complesso, “The Year of the White Bear and Two Undiscovered Amerindians Visit the West”, che i giornali avrebbero semplificato in “La coppia in gabbia”. Non a Siviglia, ma a Madrid. Nei Jardines del Descubrimiento, all’ombra dell’imponente guglia neogotica (opera del castigliano Arturo Mélida y Alinari), dall’alto della quale un Cristoforo Colombo stilita (del catalano Jeroni Miquel Suñol i Pujo) veglia sulla piazza che reca il suo nome, eressero una spaziosa gabbia dalle sbarre di ferro, per trasferirla poi al vecchio mercato della frutta e verdura del Covent Garden di Londra. Vi si chiusero per alcuni giorni a impersonare due selvaggi prelevati da un’isoletta dell’Atlantico sfuggita a Colombo e rimasta sconosciuta per quattro secoli nonostante il gran traffico marittimo. Le intenzioni polemiche erano esplicite. La questione degli zoo umani aveva minato le pretese di comprensione e fratellanza universale di cui le esposizioni universali si erano ammantate fin dall’inizio, dai tempi del Crystal Palace (1851) di Alberto, principe consorte della regina Vittoria.

 

L’espressione zoo umano doveva essere presa alla lettera. Durante l’esposizione del 1889, proprio quella organizzata per celebrare il centenario della Rivoluzione francese con i suoi principi di libertà, fraternità e uguaglianza, bambini e mamme, soldati e bambinaie, turisti e flâneur potevano allungarsi dal terreno dell’esposizione, all’ombra della nuovissima torre Eiffel, fino al Jardin d’Acclimatation per ammirare belve e uccelletti. In un recinto alcuni selvaggi africani nudi quanto bastava per non turbare le adolescenti si applicavano a vantaggio di un pubblico ameno nelle occupazioni quotidiane. Gli zoo umani, come li bolliamo oggi con un’esplicita intonazione di orrore, o le esposizioni etnologiche, com’erano intese da una accademia intenta a documentare storia ed evoluzione della civiltà, anche con musei come il Muséum ethnographique des missions scientifiques, erano molto graditi a un pubblico ghiotto di racconti di viaggi. A disilludere il pubblico sulla bontà degli zoo umani non fu un sentimento di fratellanza, di dignità umana, l’idea che degli esseri umani non potevano diventare oggetto di spettacoli che non potevano controllare, né condividere, ma la scoperta che quegli spettacoli non erano così autentici, così palpitanti come si voleva fare credere.

 

Nel 1931 fu organizzata a Parigi una grande esposizione coloniale. Non era la prima, ma era la più impegnativa, anche se la Gran Bretagna, l’altra grande potenza coloniale oltre la Francia, non aveva per questioni politiche voluto contribuire direttamente. Nonostante le molte offerte, tra cui una ricostruzione monumentale di una delle meraviglie del mondo, il tempio cambogiano di Angkor Wat, una delle attrazioni più efficaci si era rivelata il miserabile villaggio che un gruppo di kanaki della Nuova Caledonia si era costruito con materiali e strumenti tradizionali della loro isola, nel parco di Vincennes, ai margini sudorientali di Parigi, per viverci i mesi dell’esposizione secondo i loro costumi più che primitivi. Non era difficile capire il perché: persino tra i popoli della Melanesia considerati i più primitivi e selvaggi del globo, secondo i racconti degli esploratori, i kanaki della Nuova Caledonia vantavano il primato in ogni sorta di antropofagia, da quella a fini cultuali e simbolici, a quella laicamente alimentare. Se si vuol credere alle testimonianze un po’ nebulose e contraddittorie che l’antropologo tedesco Ewald Volhard andava in quegli anni raccogliendo per la sua summa, “Kannibalismus” (1939), l’antropofagia dei kanaki era scevra di ogni tabù, essendo adatti per il banchetto nemici e parenti, giovani e vecchi, maschi e femmine eccetera. Gente più primitiva, il grande pubblico non poteva sperare di vedere.

 

[**Video_box_2**]Ma in giro c’erano dei guastafeste, nemici per ideologia del colonialismo. Erano gli artisti surrealisti nella loro fase di stretta osservanza marxista che, con André Breton in testa, oltre ad avere già pubblicato un manifesto intitolato “Ne visitez pas l’exposition”, avevano poi organizzato una antiesposizione coloniale in una sede della CGTU, la Confederazione generale unitaria del lavoro, dove avevano condiviso con il pubblico i magnifici pezzi di arti primarie, dall’Africa subsahariana all’Oceania, Nuova Caledonia non esclusa. Il buffo era che quei loro capolavori li avevano in gran parte acquistati dal grande mercante Ratton, lo stesso Charles Ratton che aveva assolto brillantemente l’incarico di organizzare una mostra ufficiale di arte primaria nei recinti dell’esposizione. Il risultato non fu per i surrealisti esaltante: mentre i botteghini dell’esposizione del parco di Vincennes staccarono più di trentacinque milioni di biglietti, i visitatori dei surrealisti non furono che cinquemila, distribuiti nell’arco di un anno. Ma una soddisfazione i surrealisti se la tolsero comunque. Trovando persino più surreale delle loro stesse opere ispirate alle incongruenze del sogno la favola per la quale un gruppo di selvaggi fermi all’età della pietra avessero retto senza traumi una trasferta all’altro capo del mondo al punto di saper fornire in anticipo le specifiche degli attrezzi e dei materiali necessari per avviare un loro villaggio di capanne tra i platani del Bois de Vincennes, si erano dati a interrogare a investigare: per scoprire presto che i feroci cannibali condannati a una dieta in bianco erano sì autentici kanaki, ma piuttosto civilizzati e perlopiù dipendenti dell’amministrazione della Francia d’Oltremare, impiegati alle poste di Nouméa a timbrare i francobolli con l’effigie del già raro cagou, l’uccello terricolo prediletto dai piccoli collezionisti francesi. Fu, nell’economia della grande esposizione, un piccolo scandalo. Non servì ad abolire la pratica fieristica degli zoo umani: ancora nel secondo Dopoguerra all’Expo di Bruxelles, intitolato addirittura all’atomo per lo sviluppo e la civiltà, si potevano vedere dal vivo quadretti di vita congolese. Ma confermò a futura memoria la sbalorditiva vitalità, anche contro ogni evidenza, dei luoghi comuni.

 

Come d’uso nelle produzioni di Broadway, Fusco e Gómez-Peña prima di affrontare le grandi piazze di Madrid e Londra diedero un’anteprima d’assaggio in provincia. Poiché il loro tema erano i borders, scelsero una città di confine non molto lontana dall’inferno di Tijuana. A sud di Los Angeles, nella California del sud, Irvine è una città che, nata negli anni Sessanta del secolo scorso da un progetto sulla carta intorno a una giovane università privata, è cresciuta rapidamente dai cinquantamila abitanti previsti al quarto di milione di oggi. Era nella percezione del messicano Gómez-Peña la città degli Stati Uniti dove l’idea stessa di Messico era sgradita. Vi impiantarono la loro gabbia e si presentarono nelle vesti dei due stereotipi dell’immaginario del selvaggio in occidente, il diabolico cannibale e l’angelica buona selvaggia. Per sembrare più terribile, Gómez-Peña completava il già fantasioso costume da indio con una maschera leopardata di quelle spesso presenti nel baule scenico dei lottatori wrestler. Non era poi la maschera l’unico elemento incongruo con il costume carnevalesco da selvaggio: c’erano l’orologio al polso, le scarpe da ginnastica eccetera. Coco l’angelica poi non sdegnava di indossare anche lei una maschera, tecnologica, antigas, nel suo caso. Oltre che di comuni piante d’appartamento in vaso, la gabbia era ricca di tutti gli strumenti per il tempo libero, dalla poltrona alla televisione, dai libri all’enorme mangiacassette che i latinos portavano avanti e indietro sulla spalla lungo le spiagge della California, e soprattutto il pc che il feroce cannibale divorava con gli occhi. Il perché di quella scarsa aderenza all’idea del selvaggio incontaminato era chiaro nel discorso di Fusco e Gómez-Peña: che si prendessero gli indiani Hopi, le cui danze in Nuovo Messico erano uno degli spettacoli etnici più famosi e frequentati degli Stati Uniti, chi poteva affermare che quando non erano sul lavoro, quando non facevano la danza della pioggia per i turisti, non indossavano jeans, t-shirt, orologi, sneakers di marca e quant’altro, non si vestivano come qualunque lavoratore americano? Non era forse vero che il rinvenimento di brandelli riciclati dell’occidente era il miglior indizio dell’autenticità di un pezzo di arte primaria? Del resto, a giudicare dalle reazioni del pubblico, sempre numeroso ed entusiasta sia a Madrid sia a Londra, ma soprattutto nelle diverse piazze tra le quali la coppia nella gabbia peregrinò nei due anni successivi, non bastavano né l’inverosimiglianza di un’isola atlantica sfuggita per cinque secoli a ogni ricognizione, né la curiosa dimestichezza della coppia selvaggia con la tecnologia elettronica, né la strana propensione dei due a ingurgitare cibi e bevande prodotti dalla grande industria a fare dubitare a più della metà del pubblico della genuinità dei selvaggi. Molti erano disposti a dare il proprio obolo per farsi fotografare con i magnifici selvaggi, molti ascoltavano a bocca aperta le lunghe concioni dei due in una lingua radicalmente inventata fingendo di capire. Capitò più di una volta che qualcuno si mettesse a tradurre per gli astanti, sostenendo di conoscere la lingua fin da bambino, facendo credere di essere stato portato via dall’isola che non c’è. Ci fu chi si indignava per la crudeltà di tenere due creature in gabbia, chi trovava la cosa del tutto normale, chi faceva di tutto per fare delle gentilezze ai due immigrati e chi tentava di fare loro del male, passando attraverso le rade sbarre cibi schifosi e nocivi. Nessuno pareva rendersi conto di essere il vero soggetto dell’opera. Nessuno sembrava provare almeno il turbamento che Coco Fusco aveva avvertito in un acquario, quando si era resa conto che un polpo applicato al vetro con le sue ventose la stava osservando da un pezzo.

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