A Genova eravamo noi no global dalla parte sbagliata della storia
Al direttore - A Genova c'ero. Sbagliai, come tanti. Non sembra vero che siano passati quattordici anni, ma il calendario oltre a essere spietato è anche molto preciso.
Quattordici anni fa partivo con una carovana colorata con bandiere rosse, cubane e arcobaleno alla volta di Genova. Era il 21 luglio del 2001. Il giorno precedente aveva perso la vita il manifestante Carlo Giuliani in seguito a uno scontro violento con il giovanissimo e inesperto carabiniere Mario Placanica.
Potete immaginare l’alta tensione mista a un senso di lutto frastornante. Siamo scesi nel grosso parcheggio di Marassi, davanti allo stadio. Infagottati come per attraversare una foresta vietnamita. Invece il sole splendeva, faceva caldo, l’estate picchiava alle tempie, e tutto intorno insisteva un silenzio surreale in odor di presagio.
Le strade di Genova sembravano deserte. Le banche, le scuole, i negozi e insomma tutto, era sprangato, inchiodato con tavole, blindato, per proteggere le attività commerciali dai vandali. Camminiamo. Al collo le maschere antigas ciondolano al ritmo dei passi. In tasca, sigillati in un sacchetto, limoni per attenuare l’effetto dei lacrimogeni. Avanziamo lungo lo strabiliante viale che costeggia il mare limpido, azzurrissimo. Il corteo prosegue la marcia e adesso siamo migliaia. Cobas, no global, pacifisti, black block, papa boys, preti in borghese, missionari, boys scout, antagonisti, centrosocialisti, veterocomunisti, e insomma all’incirca le stesse persone dall’indole bonacciona che potresti incontrare alla marcia di Assisi o al raduno sindacale di Piazza Maggiore.
Ci muoviamo in massa verso l’ignoto con addosso la paura di essere i prossimi martiri del capitalismo. In lontananza si scorgono i primi tafferugli; presto ci coinvolgeranno. Le forze dell’ordine avanzano con passo marziale. Sta per avvenire lo scontro, cercato, inevitabile. Si percepisce una terribile tensione scandita dal battere dei manganelli sugli scudi di plastica trasparente. Stanno arrivando. Caschi, bavagli amaranto, anfibi, divise blu e nere. Militari in tenuta antisommossa. Confusione, mischie, parapiglia. Ci perdiamo. Ognuno è solo con il proprio timore; un destino livido ci attende. Prima di attaccare ci sparano addosso intere munizioni di lacrimogeni che rendono l’aria spessa, irritante, irrespirabile. Mi sento soffocare. Gli occhi fanno male, bruciano, non posso aprirli. Corro fortissimo. Gli occhi sempre chiusi. Sbatto contro un albero. Cado a terra. Agguanto un limone dalla tasca e me lo passo sugli occhi, trovo una bottiglietta d’acqua e mi verso l’intero contenuto in testa e sul viso. Mi riprendo un attimo, già stremato, già pentito. Girandomi, con l’apparato visivo in tilt, apro gli occhi a stento con sguardo sfocato e urticante. Mi accorgo di essere rimasto troppo tempo a terra. L’esercito dei manganelli mi ha raggiunto, quasi acciuffato. C’è una specie di carro armato. Devo scappare, cieco, con un ecchimosi alla testa e il sangue che fuoriesce, sì, devo scappare. Mi levo da terra lentamente, come un soldato ferito individuato dai nemici; subito sono raggiunto da una, due, tre, sette manganellate; per fortuna mi copro con l’avambraccio e riesco ad attutire i colpi. Ho buone gambe e tanto fiato. Sfuggo alla presa. Mi rialzo e scappo più lontano che posso, confondendomi tra la folla sguinzagliante. La carica si placa. Le due squadre seguono una tregua anarchica, obbligata, imposta dallo sforzo.
In lontananza riesco a inquadrare un gruppo “dei nostri” che sbuca da una strada laterale per sorprendere e attaccare i militari. E’ la scintilla. Poi grande battaglia. Le strade nei pressi del lungomare sono teatro di lotte e zuffe isolate. La guerriglia urbana si divide le vie. Anarchici muniti di bandiere rossonere a fronteggiare la Guardia di Finanza; antagonisti dei centri sociali contro poliziotti; comunistelli a sfidare Carabinieri. Si berciano slogan antichissimi. La guerriglia non fa sconti da una parte e dall’altra.
Mi ritrovo con un gruppetto di sconosciuti. Tutti bendati e dotati di sistemi di protezione che definire precari è un eufemismo. Alla maschera antigas che sto indossando cede un elastico rendendosi inutilizzabile, la perderò. Intanto avanzo, deciso. Ci troviamo in una zona non presidiata. Sentiamo l’anarchia nel sangue, un furore punk contagioso. Necessità distruttiva che mai avevo provato - che grazie a Dio non avrei più avvertito - ma in quel frangente mi avvolgeva come un fuoco, divampante.
Ci spostiamo uniti, un’unica unità. Entriamo fisicamente dentro una banca con le vetrate già infrante, i cassetti divelti, le scrivanie rovesciate e i computer scaraventati a terra. Iniziamo a tirare calci alle sedie, spacchiamo vetri e specchi, mandiamo all’aria gli archivi, saccheggiamo, sentendoci eroi del nuovo mondo. Personalmente, pur facendo parte del gruppo, quindi complice, mi limito a spaccare un vetro già rotto, per spirito di solidarietà. Ma insieme, gente che probabilmente fino al giorno prima si era sempre comportata civilmente, risultiamo devastanti, e devastiamo e usciamo, sempre indisturbati.
La giornata prosegue fra uno scontro più o meno frontale e un atto di ignorante devastazione, inutile teppismo, stupidità. Siamo incoerenti, agitati. Agiamo per istinto, come branco di bufali che si getta nel burrone per ordine collettivo. Nel frastuono raccolgo due cimeli: un manganello e una tuta precedentemente sfilata a qualche poliziotto. Fratelli contro fratelli, come nella foto storica di Tano d’Amico. Ventenni mandati al massacro.
[**Video_box_2**]Eravamo a Genova senza un vero scopo, con un nemico vaporoso e indefinito, quindi inesistente, aizzati dai media antagonisti, dalla trasmissione di Fabio Volo su MTV; qualcuno di noi, dalla voglia di emulare le gesta sessantottine di genitori o anziani conoscenti fin troppo mitizzati. L’amico che mi sedeva di fianco sul pullman è stato arrestato e detenuto una settimana nel carcere di Bolzaneto, subendo alcune percosse successivamente denunciate, esasperate, e portate all’attenzione dei media.
Sono sicuro di una cosa, durante il G8 di Genova quasi nessuno fu innocente, quasi tutti fummo colpevoli. Scrivo “quasi” a onor di statistica. Pochi hanno ammesso i propri errori. Quasi nessuno, tre lustri dopo, è riuscito a dare una lettura trasparente e realistica di quei giorni. Ognuno è stato preso alla sprovvista dalla propria emotività. Non andammo a Genova pacificamente e non ci accolsero pacificamente; tutto qui.
Anche il compianto Giuliani, che sì, potevo quasi essere io, quasi, poteva essere anche la maggior parte di noi; il destino ha scelto lui, neanche Giuliani dunque era questo angioletto colpito dal picchiatore di turno: un carabiniere mandato in armi troppo presto e lasciato in balia di delinquenti; cosa doveva fare, subire il linciaggio? In guerra ti difendi, è un dovere verso te stesso, altrimenti muori; e in quei frangenti la morte è lì, a portata di mano. La stessa mano che, armata per difesa, per istinto di sopravvivenza, per rabbia, ha dato la morte a un ragazzo simile al me di allora: un minorenne pentito di essere andato a Genova che oggi si vergogna per quello che ha fatto e tardivamente chiede scusa.
(Il testo della lettera è un aggiornamento di una lettera già comparsa nel 2011)
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