La lezione americana di Amanda
Il circo mediatico-giudiziario vuole sentenze di colpevolezza grandiose ed esemplari, segue con pervicacia le minime tracce di sangue alla ricerca dell’arteria principale, si esalta per il tintinnare di manette. Il suo procedere è talmente rapido e sommario da far apparire la sentenza quasi superflua, comunque minore rispetto al gioco degli schieramenti e delle impressioni maturati nei mesi e negli anni in cui il verdetto è già stato emesso e la pena comminata sui giornali e nei talk show, instillata nelle menti degli spettatori trasformati in tricouteuse. Per i procuratori del circo si tratta soltanto di stare a vedere se la condanna porterà l’imputato dietro le sbarre di metallo o dietro quelle invisibili dell’impresentabilità pubblica e della reputazione per sempre ammaccata. La cronaca politica più recente mostra che non serve nemmeno che la vittima sia iscritta nel registro degli indagati per arrivare alla sentenza per direttissima; l’intercettazione scientificamente passata dalle procure ai giornali questurini scavalca il potere in toga ed estorce all’indagato la pena prestabilita in formula diretta, con tutto il mondo improvvisamente trasformato in giuria e pure in tifoseria, se serve. Bastano un Rolex, un posto di lavoro, un paio di telefonate, un tono leggermente disinvolto e si può procedere a montare la panna accusatoria. Se si obietta che il malcapitato intercettato non è nemmeno fra gli indagati ci si sentirà rispondere che la sua condotta è stata almeno imprudente, troppo disinvolta, ingiusta, sospetta, equivoca. Qualcosa deve aver fatto. Che è il fratello minore di “non poteva non sapere”, altra perifrasi per la quale le procure italiane hanno un debole. Si sa: contrariamente alla magistratura, il circo mediatico-giudiziario è autorizzato (da se stesso) a pronunciare sentenze morali, l’interpretazione e l’applicazione della legge non lo saziano mai. E’ un tribunale composto da intellò guidati dallo spirito popolare della torcia e del forcone, simboli di una giustizia retributiva che va a sempre braccetto con l’autoassoluzione. La severa condanna della sporcizia altrui ci fa sentire più puliti. Certo, dal punto di vista dello stile circense c’è molta differenza fra un processo di tipo politico e un caso di cronaca nera, e regole di trattamento ancora diverse si applicano quando si tratta di crimini da colletti bianchi, dove entrano in gioco altre pulsioni e altri meccanismi di accusa e difesa, ma in generale il circo vive dell’istinto colpevolista, vuole giustizia e giustizia significa sbattere qualcuno dentro, poi si vedrà. Nello schema del legal drama all’italiana il procuratore è l’eroe, l’imputato un presunto colpevole da villaneggiare, il giudice un augusto rappresentante del terzo potere se martella nello stesso verso del teorema giustizialista, altrimenti è il solito corrotto. Il circo si cura comunque di renderlo ininfluente sostituendolo con sentenze sbattute in homepage o anche con gli hashtag, fattispecie del circo social-mediatico-giudiziario. Il dramma americano si svolge secondo canoni leggermente diversi, è spesso arricchito dalla variabile della giuria popolare, percepita come corpo malleabile del processo, e ovviamente c’è la cultura della difesa orale degli avvocati, la puritana “perp walk” dell’ammanettato, le conferenze stampa perfettamente inscenate, ci sono i curatori d’immagine e le interviste lacrimevoli nei salotti televisivi, c’è l’apparato della narrativa hollywoodiana progressivamente travasato nel format più meticoloso e culturalmente pervasivo della serie televisiva, da “Law & Order” a “The Good Wife”. L’incontro fra la giustizia e il suo racconto pop è oggetto di studio degli accademici e nonostante molte serie siano viziate da un certo istinto colpevolista – la condanna esemplare di “Judge Judy” è l’equivalente del “vissero tutti felici e contenti” delle favole – uno dei pochi effetti riconosciuti della drammatizzazione legale sul sistema è il cosiddetto “CSI effect”, portato della serie incentrata sul lavoro dei reparti speciali della polizia scientifica.
Quelli di CSI risolvono sempre i casi con schiaccianti prove del dna, roba certa e inconfutabile, ottenuta con metodi scientifici più sicuri di qualunque ricordo del più attendibile dei testimoni. La giuria dei processi reali e il pubblico che segue da casa il processo al ritmo ossessivo dei canali all news mentre interagisce sul second screen si aspetta che a un certo punto salti fuori una prova del genere, di quelle che fugano ogni dubbio. Se il mondo reale, come spesso capita, si dimostra un po’ più complesso di quello televisivo e i mezzi della scientifica un po’ meno fantascientifici di quelli di CSI, giuria e pubblico si confondono, vengono assaliti dai dubbi – ma come, nemmeno un po’ di epidermide della vittima sotto le unghie dell’assassino? Possibile? – e inconsciamente tendono verso l’ipotesi assolutoria, ché solo l’evidenza scientificamente provata offre uno straccio di certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Il “CSI effect” è un lenitivo involontario degli istinti giustizialisti, mitiga, frena, in assenza di evidenze chiare tende a favorire la difesa più che l’accusa. Esistono altri tic codificati, come la “sindrome della giovane donna bianca scomparsa”: quando scompare una giovane donna bianca gli indagati devono fortemente sperare in un alibi di ferro, perché nella mente del pubblico affiorano le ipotesi più truculente quando la vittima ha quelle caratteristiche. Si pensa subito al mostro pervertito, al serial killer disturbato e sadico, a Jack lo Squartatore, scattano riflessi che non scattano se a scomparire è un maschio ispanico di mezz’età. In “Gone Girl”, romanzo di Gillian Flynn portato al cinema da David Fincher, la truffatrice fuggiasca ottiene senza sforzo il favore del pubblico che la crede morta, trucidata in qualche modo orripilante da quel pazzo omicida del marito, immediatamente condannato dalla vox populi. C’è poi l’istinto giustizialista per l’imputato ricco e potente che abusa di una vittima di rango sociale inferiore – il caso di scuola è Dominique Strauss-Kahn – e quello altrettanto negativo dell’arrogante superstar che si crede onnipotente, il caso di O.J. Simpson, protagonista del processo mediatico del secolo (100 milioni di americani hanno interrotto quello che stavano facendo per seguire la lettura della sentenza). I due sono stati proclamati innocenti, ma nel racconto popolare sono “villain”, i cattivi della storia, dotati di poche ragioni e di costosi e suadenti avvocati. Esistono, insomma, diverse figure nell’interazione fra la legge e il suo racconto, fra il sistema legale e il suo strambo gemello, il circo mediatico-giudiziario. Su questo sfondo si staglia il caso di Amanda Knox. La cassazione ha confermato l’innocenza della ragazza di Seattle, la cui immagine negli anni ha oscillato fra due estremi, quello dell’angelo americano in Erasmus e quello della Femme Fatale senza scrupoli. Senza mettersi a riaprire i faldoni di un caso a questo punto chiuso – presto le motivazioni della sentenza di assoluzione completeranno il quadro – si può dire che il processo di Amanda è stata la grandiosa messinscena di un circo mediatico-giudiziario di segno opposto rispetto a quello colpevolista che la situazione aveva naturalmente generato subito dopo l’omicidio di Meredith Kercher. Impiegando un mix inedito di espedienti di pubbliche relazioni, giocando sul “cultural divide” e sugli istintivi moti di sfiducia del pubblico americano per il sistema giudiziario italiano, curando in modo maniacale interviste, apparizioni pubbliche, tagli di capelli, comunicazioni dirette via blog o altro, mettendo in mezzo sapientemente parenti, amici di famiglia, testimoni simpatetici di qualunque genere, politici pronti a mettersi al fianco di Amanda in cambio di visibilità, i maestri dello spin del clan Knox hanno messo al sicuro la vittoria. Non la vittoria giudiziaria, ché quella vogliamo credere sia consumi sempre e soltanto nella terzietà delle aule dei tribunali, ma la vittoria d’immagine e di reputazione, quella a cui il circo mediatico-giudiziario è più interessata. Nella logica del circo un innocente sfregiato e impresentabile è più appetibile di un dignitoso colpevole, il quale potrebbe addirittura rischiare di avere una vita dopo aver scontato la pena. Amanda è tornata in patria non solo ripulita ma amata, trattata con il rispetto che si deve all’angelo innocente cacciato per errore all’inferno per oltre sette anni. Il pubblico sente di essere in debito con lei per tutte le volte che ha dubitato, per tutte le volte in cui ha ceduto alla tentazione di crederla una “Gone Girl” che ha architettato e commesso il delitto perfetto nella perversione dei suoi vent’anni. La controprova non esiste, ma la domanda si può fare ugualmente: se Amanda fosse stata condannata, da che parte si sarebbe schierata l’opinione pubblica americana? Contro la ragazza oppure in suo favore? Sarebbe stata il carnefice della povera compagna di camera uccisa a coltellate, oppure la vittima di un sistema giuridico da operetta, lo stesso che non riesce nemmeno – questo dettaglio fa sempre impressione sull’osservatore straniero che ha imparato quel che sa dell’Italia da Severgnini e Saviano, tutt’al più da Bill Emmot – a condannare come merita Berlusconi? Ipotizzare che ci sarebbe stato un movimento dell’opinione pubblica in difesa di Amanda non è certo assurdo.
Al netto delle ipotesi, tutto questo credito non l’ha guadagnato per caso, è il pezzo fondamentale di un legal drama che è stato curato con attenzione, non senza sonore cadute e cambi di direzione, ma comunque portato all’epilogo che i suoi narratori avevano immaginato.
[**Video_box_2**]Tre giorni dopo l’arresto di Amanda, nel 2007, il padre Curt ha fatto “una delle cose più intelligenti che abbia mai fatto”, come ha detto qualche anno dopo: assumere un esperto di pubbliche relazioni. Anzi, l’esperto più dritto di Seattle, David Marriott, dello studio Gogerty Marriott, un “power broker”, come si dice, che ha iniziato la carriera come giornalista, s’è immischiato nella comunicazione politica e ha preso a muoversi fra le aule di tribunali per riabilitare l’immagine di assistiti caduti in disgrazia o – ancora meglio – prevenire l’eventualità di una caduta con una superiore potenza d’immagine. Nell’epoca della narrazione è stato Marriott il grande narratore della storia di Amanda, compito non semplice se si considera che partiva da una posizione di oggettivo svantaggio: provare la colpevolezza, non l’innocenza, è la specialità del circo mediatico-giudiziario. Marriott ha suggerito, orchestrato e in alcuni casi contribuito in prima persona alla sovraesposizione mediatica della famiglia e degli amici quando ha capito che il silenzio e la discrezione non erano strategie praticabili: l’immagine di Amanda sarebbe stata determinata dalla mortale combinazione di procuratori italiani e tabloid inglesi, cosa che destava la legittima preoccupazione della famiglia. L’unica alternativa era parlare, farsi vedere sempre, continuare a comparire nei titoli, rispedire al mittente illazioni e accuse, arrivando perfino a usare con autoironia il nomignolo malizioso appiccicato dalla stampa britannica, “Foxy Knoxy”. Quando ha attecchito sui media l’immagine della ragazza algida e leonardesca, bellezza fredda che poteva facilmente nascondere un doppelgänger oscuro e assassino, lui ha ordinato una cura a base di foto di repertorio con il cane o alle feste di compleanno, per dare calore e anima alla ragazza. Poi il libro, il blog, l’operazione trasparenza e la ricostruzione dell’immagine della ragazza acqua e sapone. Eterea ma non troppo, ché Amanda ha bisogno di ricostruirsi una reputazione in questo mondo, non altrove. Scientificamente Marriott ha presentato al pubblico americano la giustizia italiana molto peggio di come i giornali italiani presentano la giustizia indiana quando si parla di Marò. La senatrice Maria Cantwell, che Marriott conosceva bene attraverso un giudice di Seattle che s’è offerto di fare da consulente, è diventata la portavoce ufficiale del messaggio di sfiducia verso la giustizia, tirando in ballo un generico sentimento antiamericano: “Ho seri dubbi sul sistema giudiziario italiano e sull’ipotesi che l’antiamericanismo abbia inquinato questo processo”. Alcuni dicono che questa enorme, tentacolare controffensiva sia stata portata anche uscendo dall’ambito del lecito con interviste pilotate, accesso alle fonti dato in cambio di una certa copertura, sistematica vendita di fumo ai giornalisti morbosamente alla ricerca di qualunque brandello di seminotizia che giustificasse l’uscita dell’ennesimo servizio. E’ riuscito anche a utilizzare a favore di Amanda il “CSI effect” screditando con astuzia le perizie ufficiali e gettando confusione attorno alla cruciale questione del Dna della ragazza trovato sul manico del coltello. Ci sono stati anche scivoloni e momenti di impopolarità assoluta – qui è impossibile riassumere sette anni di processo mediatico – ma la macchina delle pubbliche relazioni della famiglia Knox non ha mai smesso di funzionare, di ribattere colpo su colpo al circo mediatico dei colpevolisti in una battaglia che soltanto in parte si combatteva fra le carte della procura. L’Amanda celebrity è più importante dell’Amanda imputato, questa è la premessa implicita di chi orchestra una campagna paragiudiziaria, in qualunque direzione e a sostegno di qualunque tesi. Nel legal drama all’italiana siamo abituati alla vittoria per distacco dei registi dello sputtanamento, l’alleanza fra i passacarte delle procure e gli editorialisti mozzorecchi, ma nel plot italoamericano di Amanda Knox hanno vinto i narratori della ricostruzione e della difesa dell’immagine, padroni di un circo mediatico-giudiziario rovesciato, pari e anzi superiore all’originale.
Il Foglio sportivo - in corpore sano