Lo spirito di Siena
C’è una cosa che Siena – la terra dell’House of Cards italiana, altro che la Roma Capitale – non riesce a fare ed è liberarsi delle scorie. E così è perché in fondo non vuole farlo, perché quei fardelli che si porta appresso sono parte della propria identità e della propria autoconservazione. Altrimenti non sarebbe mai riuscita a tenere in piedi il groviglio, quell’equilibrio fra strapaese e strapotere che ha governato la città negli ultimi vent’anni, prima che i quattrini del Monte dei Paschi finissero, prima che la Fondazione smettesse di erogare finanziamenti, prima insomma che il socialismo municipale cominciasse a scricchiolare e che i re – Giuseppe Mussari in primis – cadessero dal cavallo. Le scorie, appunto, restano; venerdì scorso Mps, su pressione della Consob in vista dell’assemblea dei soci che il 16 aprile voterà la nuova ricapitalizzazione da 3 miliardi, ha reso noto che a fine del 2014 l’esposizione di rischio con la banca Nomura ha superato “il limite regolamentare del 25 per cento del patrimonio di vigilanza, attestandosi al 34,68 per cento”. E la Bce ha indicato l’unica via per Mps: al di là dell’aumento di capitale, che comincerà a giugno, la banca dovrà aggregarsi con altri istituti di credito. Ancora una volta torna il fantasma della perdita della senesità, sulla quale Siena ha costruito la propria mitologia: se Siena s’aggrega, Rocca Salimbeni resterà al suo posto? Non è una banale questione logistica, in una città in cui il desiderio autarchico di vivere in autosufficienza ha prevalso sul resto, una città che per decenni si è creduta ancora una repubblica autonoma, come quella che sconfisse i fiorentini nella battaglia di Montaperti, appartata rispetto al resto del mondo, come se fosse stata sottoposta a crioconservazione, mentre intorno a lei il mondo invecchiava. “Ancora un aumento di capitale per il Monte. Chissà se l’assemblea sarà agitata come certune del passato”, dice al Foglio Roberto Barzanti, ex sindaco di Siena ed ex vicepresidente del Parlamento europeo. A quella del 2014 arrivò Beppe Grillo e la sparò grossa come al solito: “Questa è la mafia del capitalismo, non la Sicilia. Qui siamo nel cuore della peste rossa e del voto di scambio”. Oggi, quando ci sarà la prima convocazione dell’assemblea, arriverà Matteo Salvini al grido di “ci sono ottomila dipendenti che rischiano il posto”. Sulla pelle di Siena, insomma, le speculazioni politiche non mancano.
“Ormai – prosegue Barzanti – le vicende della banca non scatenano più effetti sorpresa. Eppure non mancano alla vigilia strascichi di notizie spiacevoli, a parte il fronte giudiziario”. L’operazione Alexandria, sottolinea Barzanti, “continua a provocare guai, l’esposizione con Nomura ha superato la soglia consentita e sarebbe auspicabile tentar di patteggiare una decente chiusura. Ma il miracolo che si attende è che prenda finalmente corpo un’aggregazione dignitosa. Aggregazione non vuol dire fusione. Anni fa il Monte aveva varato la strategia del cosiddetto ‘polo aggregante’: il Monte ambiva a collocarsi al centro di una costellazione virtuosa. Ora da polo aggregante sarebbe già qualcosa se divenisse polo aggregato, se cioè nella prospettiva di una sua necessaria confluenza in un gruppo multipolare serbasse una sua identificabilità. E che Rocca Salimbeni sopravvivesse con un suo grado di relativa autonomia. Si sa bene che i processi decisionali derivano ormai da una dimensione globale e che la geografia non ha più l’importanza di una volta. Ma dall’autorevole esperienza di Alessandro Profumo (presidente di Mps, ha già detto che non resterà, ndr) ci si aspetta una soluzione dignitosa, che non cancelli un nome, una sede e la storia secolare che racchiude. Una soluzione che non cancelli il rapporto con la città e con il territorio di più consueto riferimento, ora che la Fondazione Mps è ridotta al minimo”.
Perdere la sede sarebbe un’onta perché “a Siena ogni cosa è senese”, scrive Henry James nelle sue “Ore italiane”, nel senso che ogni cosa è ai suoi occhi intimamente senese: “Dal punto di vista morale e intellettuale, dietro i muri dei suoi palazzi, il quattordicesimo secolo – mi vengono i brividi a dirlo – non ha ancora smesso di vivere”. “La Siena di oggi – scrive James nel 1873, durante un suo soggiorno – non è altro che un tenue fantasma della focosa piccola repubblica che nel Tredicesimo secolo condusse guerre vittoriose contro Firenze, coltivò con splendore le arti, progettò una cattedrale di dimensioni quasi ineguagliate – sebbene negli ultimi tempi avesse dovuto ridurne il disegno complessivo –, ospitò una popolazione di duecentomila anime”.
Gli abitanti oggi sono poco più di 50 mila, ma la città del Palio continua a essere, almeno in parte, quella descritta da James: una città in continua decadenza, in cui ogni cosa, ha “oltrepassato il proprio meriggio”. Non c’è istituzione che sia rimasta immune; banca, fondazione, università, partiti, anzi il Partito, squadra di basket e squadra di calcio. Tutto travolto: una Fondazione ridotta al 2,5 per cento che riesce a governare la banca, chissà ancora per quanto, grazie a un patto di sindacato, dopo che la classe dirigente della città – cioè la sinistra – aveva per anni tenuto il 51 per cento, via via sempre più ridotto, come soglia sotto la quale assolutamente non scendere. Una università che si credeva una “piccola Oxford”, dove è venuto fuori che c’era un buco da 250 milioni di euro, ridotto negli anni successivi con una manovra certosina di spending review, in cui l’ex Rettore Silvano Focardi è stato condannato dalla Corte dei Conti per aver acquistato con i soldi dell’ateneo 360 chili di pesce pregiato dello Ionio per una ricerca scientifica pubblicata solo quattro anni più tardi (sì, a Siena c’è spazio pure per la farsa). Un partito, il Pd, che ha dovuto fare la sua Festa dell’Unità “diffusa” per la città, spacciandola per innovazione, quasi fosse cucina destrutturata, perché la Fortezza era diventata economicamente insostenibile; anche qui, a mancare, sono stati i soldi, dati personalmente e lecitamente beninteso, di Mussari al partito: 683.500 euro in dieci anni. Una squadra di basket fallita dopo aver vinto otto scudetti, di cui sette di fila. Destino identico, seppur con molta meno gloria, ha avuto la squadra di calcio, dove negli spogliatoi l’ultimo ha spento la luce perché erano finiti i soldi del Monte per pagare. Nei giorni scorsi si è aggiunto anche il fallimento di Siena Biotech, società di ricerca che dalla Fondazione, finché questa se lo è potuto permettere, ha ricevuto 160 milioni di euro in quattordici anni. Ma anche lì, una volta esauriti i quattrini, la società ha capito che non poteva camminare sulle proprie gambe. Aggiungete, al miglior romanzo politico della storia italiana, anche i misteri irrisolti e quelli con cui la città non riesce a pacificarsi, ed avrete Siena. Nel 2006 venne incendiato l’economato della Curia senese e a distanza di quasi dieci anni si sa solo che il rogo fu doloso ma non si sa chi è il colpevole. Il principale accusato, monsignor Giuseppe Acampa, economo, è stato assolto nel 2011. Nel 2013 invece morì David Rossi, capo della comunicazione di Mps. Si suicidò, ha stabilito la procura, ma in città c’è chi continua a pensare – saranno pochissimi ma ci sono – che sia stato ucciso perché, essendo il portavoce di Mussari, sapeva tutto e forse troppo di quel che succedeva nei “mitici” anni della gestione mussariana, quelli in cui la banca non voleva solo fare la banca, ma essere cool, con i cappellini e le felpe targati “1472”, quelli in cui si pensava che pagare oltre nove miliardi di euro per Antonveneta potesse essere un conto da assorbire agevolmente.
Già: l’acquisto di Antonveneta è l’emblema recente che racchiude lo spirito di Siena, specializzata nei grandi progetti a metà, come quando nel 1339 volle raddoppiare il suo Duomo e fu fermata dall’epidemia di peste del 1348 oltre che da errori di calcolo. E’ una città in cui c’è poco senso del realismo, fuori scala, non è una città “a misura d’uomo”, come si sente dire, ma a misura di sogno. Una catena d’illusioni. Dove per anni ci si è illusi di avere la banca migliore del mondo, la banca più sana del mondo, il partito più forte di tutti, la squadra di basket imbattibile. Ma ogni cosa, appunto, era fuori scala. Era fuori scala la Mens Sana, il Siena Calcio, tutto alimentato dai soldi della Banca. Una volta finiti i soldi, è finito il sogno. I tentativi di riscatto non hanno funzionato molto, finora; vedi la candidatura a capitale europea della cultura per il 2019. Alla fine ha vinto Matera e Siena ha dovuto accontentarsi della finale per il terzo e quarto posto al mondiale: le città sconfitte riceveranno un milione di euro dal ministero dei Beni culturali per realizzare i programmi che erano stati presentati per la candidatura europea.
Alla fine, pacatamente e serenamente, si può dire: quella degli ultimi vent’anni è la storia di un clamoroso autoaffondamento. Una dirigenza politica ed economica, manageriale, che credeva di poter sopravvivere a tutto, persino a se stessa, e una comunità che è stata felice di poter respirare oppio finché l’oppio c’era in abbondanza e che non si può rivoltare contro il babbo Monte perché è lui che ha sempre pagato le bollette. Con alcune eccezioni, certo. Il lavoro di controinformazione, o in alcuni casi più semplicemente di informazione, a Siena, lo hanno fatto i blogger; uno è Raffaele Ascheri, professore di scuola media che s’è messo a scrivere libri parecchio forcaioli e grillini, ma anche pieni di spunti, come “La Casta di Siena” (che ha venduto 6.500 copie) e “Le mani sulla città”. Opere autoprodotte che gli sono valse una certa notorietà ma pure querele per diffamazione. Dopo tanti anni di attività quotidiana, con post molto letti e commentati, Ascheri è tentato di ridurre la presenza online. Il blog, “L’eretico di Siena”, non chiuderà, ma – dice il suo autore – sarà meno aggiornato. Anche i blog hanno oltrepassato il proprio meriggio.
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