Quella richiesta politica che viene dal mare, e dai 700 morti. Che fare?
Era appena rientrato da Washington con una pacca sulle spalle di Barack Obama, siete il paese cruciale per la situazione in Libia, gli ha detto il presidente americano, tenendosi sul vago, anche se Matteo Renzi ha puntualmente registrato che "esco dall'incontro con la consapevolezza della piena condivisione con gli Stati Uniti" del dossier libico. Le caratteristiche politiche e fattuali dell'appoggio appaiono ancora tutte da definire, ma intanto oggi, domenica di campagne elettorali, il premier ha dovuto rientrare di corsa a Roma, perché 700 annegati a 60 miglia dalla Libia non sono più un problema umanitario. Sono una grana di politica internazionale dannatamente seria.
Forse i morti saranno qualche manciata di meno, ma pur sempre sarebbe il peggior disastro umano nel Mediterraneo, secondo le prime valutazioni dell'Unhcr. Papa Francesco ha dedicato interamente il suo Regina Coeli alla preghiera per i disperati del mare, ha semplicemente detto che sono "nostri fratelli e sorelle". Altri alzeranno le spalle davanti al fallimento tecnico di un umanitarismo generico e legalista (la Commissione Ue ha appena ammesso che "non abbiamo né i finanziamenti né il consenso politico per creare un sistema di guardia di frontiera europea), stavolta non ci sono nemmeno le follie islamiste su cui scaricare la colpa per i cristiani scaraventati in mare.
[**Video_box_2**]Stavolta il problema è politico (laddove per politico non si intende quel che ne possono pensare Salvini o qualche altro berciatore professionale, né, ci si augura, il conticino sul pallottoliere dei sondaggi). L'Italia oscilla tra una disperata ambizione di protagonismo – diciamo meglio: responsabilità – mediterranea e la mancanza di mezzi e di riconoscimento tra i partner per poter recitare quel ruolo. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che è uomo pacato ma anche politico di un certo ambizioso coraggio, ha accennato anche di recente alla possibilità di "interventi mirati", che significa militari, o di intelligence, per iniziare (almeno) a mettere un po' di ordine di sopravvivenza nel disastro libico. Ma quando, appena iniziata la sua avventura alla Farnesina, aveva prospettato la possibilità di un intervento militare organico con le nostre bandiere (benedette dall'Onu, of course: nessun disastro politico militare dell'occidente può rinunciare alla benedizione onusiana) dovette incassare il prudente silenzio del premier e una puntualizzazione in discesa nei giorni successivi.
Esistono, ora, condizioni diverse per ipotizzare interventi muscolari e al di fuori dei confini disastrosi dell'Operazione Triton, sorella solo un po' più scalcagnata della passata Mare Nostrum? Può davvero il premier Renzi provare a rivendere il generico disinteresse dell'Anatra zoppa di Washington per il disastro mediterraneo che ha contribuito a creare? Si può davvero evitare di presentare un conto, perlomeno politico, alla Francia, chiedendo, via Europa, magari via Signora Pesc Federica Mogherini, un impegno serio per fermare il disastro in quel quadrante mediterraneo? Settecento annegati a un tiro di fune dalla Libia (perché ormai le carrette vengono buttate al largo senza l'autonomia per fare nemmeno metà della strada, tanto di là ci sono quei gonzi di italiani a pensarci, e casomai arrivassero in Italia, ci sono i basisti libici a fare il resto del lavoro), possono servire a replicare la querelle tra umanitaristi e realisti. Ma sarebbe una chiacchiera molto al di sotto della richiesta che proviene dal mare. Che è una richiesta politica. Che fare, e farlo.
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