Massì, scioperiamo contro la produttività

Claudio Cerasa
Il caso della metro di Roma svela il grande tic del conservatorismo sindacale. La ragione per cui nasce lo sciopero arriva proprio dalla volontà di cambiare la piattaforma contrattuale dell’Atac, servizio di trasporto pubblico romano, e di portare i macchinisti da 736 ore annuali a 950.

Venerdì scorso il trasporto pubblico locale di Roma ha messo in scena un piccolo e incredibile spettacolo che sintetizza bene una delle ragioni per cui, nonostante il petrolio al livello che è, l’euro al livello che è, i prezzi dell’energia al livello che sono, i tassi di interesse al livello che sono, è davvero complicato immaginare un futuro di radiosa crescita per il nostro paese. La storia la conoscete e riguarda le conseguenze di uno sciopero maldestro: alla stazione Anagnina della metro A, il macchinista di un convoglio interrompe il servizio qualche minuto prima dell’orario previsto, il convoglio non arriva al capolinea, i passeggeri, esausti, non ci vedono più dalla rabbia e, esagerando, sfiorano la rissa con il macchinista. Panico. Pugni. Accuse. Si potrebbe pensare soltanto all’ennesimo e ingiustificato e tradizionale sciopero del venerdì dei mezzi pubblici ma dietro alle ragioni che hanno portato all’illegale interruzione totale del servizio, c’è una parolina magica che costituisce una delle ragioni per cui, nonostante il petrolio, l’euro, eccetera, il nostro paese rischia di rimanere ancora a lungo schiavo del conservatorismo sindacale: produttività.

 

La ragione per cui nasce lo sciopero arriva proprio dalla volontà di cambiare la piattaforma contrattuale dell’Atac, servizio di trasporto pubblico romano, e di portare i macchinisti da 736 ore annuali a 950 (a Milano i contratti dei macchinisti sono da 1.100 ore l’anno, e si vede). Toccare la rendita, però, anche a fronte di un possibile aumento salariale, è opera complicata. E lo sciopero, con la conseguente difesa a spada tratta della Cgil delle indifendibili posizioni dei macchinisti, si spiega anche così. Tutto chiaro e lineare, dunque. Così come è chiaro che non c’è da stupirsi se i passeggeri, giorno dopo giorno, identificheranno sempre di più come simbolo del trasporto pubblico locale non chi ha l’etichetta o la licenza ma semplicemente chi gli permette di muoversi liberamente in città. E chissà che qualcosa non scatterà nella testa di tassisti e macchinisti quando il Primo maggio vedranno passare accanto a sé centinaia di persone che arriveranno al concertone di piazza San Giovanni chiedendo uno strappo a Uber o aprendo con una app una macchina del car sharing.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.