Come è diventato triste e inutile lo sciopero fisso del venerdì
Se s’avanza il venerdì, se si profila il weekend, se s’avvicina il fine settimana – lesto l’autista incrocia le braccia. Una volta c’erano, nell’immaginario nazionale, grazie pure ad apposito sceneggiato, “i giovedì della signora Giulia” ispirati al romanzo di Piero Chiara; adesso siamo stabilmente ai “venerdì dell’autoferrotranviere”, capaci di gettare nel panico e di generare crisi isteriche tra casalinghe e studenti e pensionati e lavoratori tutti (meno, si capisce, quelli bollati e tesserati per la consuetudine protestataria). Da molti anni, ormai, i sindacati sembrano aver rinunciato pure alla semplice possibilità di provare a fare lotte col consenso della gente (ovvero popolo, ovvero massa: sempre più spesso ridotti al rango di ostaggi). Più la lotta si fa corporativa, più la frantumazione sindacale avanza, più le pretese risultano incomprensibili – e più l’accanimento pare crescere. Il rito primitivo e abituale di lasciare la gente a piedi, di folle che disperatamente tentano di salire sui pochi mezzi in circolazione, un carnaio di gente buttata sui marciapiedi e lungo le strade. Nella storia della sinistra, lo sciopero è sempre stato considerato un’arma nobile – e un’arma nobile è stata davvero (“Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”, scriveva don Milani nella sua famosa lettera ai cappellani militari). C’era, intorno allo sciopero, un’aria – seppure largamente artefatta – oltre che di lotta, di festevole partecipazione, di masse in felice e solidale soccorso ad altre masse in trincea, di comune destino. Nulla di tutto questo esiste più – solo un salire di rancori, solo un crescere di risentimenti. Soprattutto negli scioperi che travolgono i servizi pubblici.
L’utente non è partecipe, come una volta il mito del buon scioperante imponeva – è solo imprigionato. Non è mai solidale: non può esserlo. E’ lì che spinge, che suda, che bestemmia. Che cerca disperato un modo per arrivare, e poi un modo per tornare. Che sente sempre più crescere la rabbia dentro la sua impotenza – e una rabbia compressa dentro un’impotenza è un’arma micidiale pronta ad esplodere. Non gliene frega niente, all’utente, delle pretese del sindacato. Il governo farà schifo, le aziende faranno schifo, la società tutta farà schifo – ma sono quelli che bloccano il tram, che ti scaraventano a terra, che ti lasciano sotto il sole implacabile o sotto la pioggia scrosciante, i nemici che oggi stanno devastando la tua giornata. C’era un controllo medico fissato da mesi, i bambini da riprendere a scuola, una lezione importante, un appuntamento d’amore, la fabbrica o l’ufficio che oggi proprio non si possono marinare. Tutto sul filo dei minuti, dei nervi, di una precarietà che è anche esistenziale, oltre che economica.
Il sindacato, antica forza nobile, è oggi percepito dalla maggior parte della gente come forza bruta. Che schiaccia col peso, che rivendica con prepotenza – non un uso della lotta, percepisce l’utente preso in ostaggio, ma il suo presunto, ripetuto abuso. I sindacati possono fare spallucce, e farsi falange macedone, e gridare forte al diritto rivendicato, calpestato, concusso – mentre del diritto altrui lesti si appropriano. E nelle percentuali trionfanti (sempre sono trionfanti, le percentuali degli agitatori), “ha scioperato il 70 per cento!”, mai esiste la contabilità di quelli lasciati a terra, quelli costretti al bivacco, quelli condannati a muovere faticosi passi (se hai una giornata di lavoro dietro le spalle, se hai ottant’anni, i passi sono faticosi).
Le scene di ieri, nelle città italiane – e benemerito il prefetto di Milano, che ha costretto gli scioperanti a restare col culo inchiodato tra freno e volante – che sono poi le stesse scene di altre settimane passate, e mesi, e anni, le facce stanche o rassegnate o furiose (di altri lavoratori, della maggior parte dei lavoratori: mica c’era il “sciur padrun da li beli braghi bianchi”, lì pigiato sul bus!), manca il fiato e manca il respiro, sono scene con dentro qualcosa di medievale, di arcaico: un diritto minoritario che scalza un diritto maggioritario. Dovrebbero parlare, tutti i famosi di belle penne e bella scienza, in perenne vigilanza per la perennemente minacciata democrazia. L’idea che non il consenso serva – infatti queste forme di lotta del consenso altrui altamente se ne infischiano: anzi, solo il vigoroso dissenso possono registrare – e che l’atto di forza sia tutto, ormai ha preso la mano.
[**Video_box_2**]La gente è stanca – faticosamente attaccata al poco che resta o al poco che un leggero venticello di ripresa sempre lasciar intravedere. I sindacati – un po’ nel giusto, spesso nell’errore, ma di solito satolli di una sorta di autoreferenzialità che li sostiene e forse li distruggerà – sembrano quasi godere dell’impopolarità che sale intorno. E’ come se piccole e grandi tribù si riunissero, autonomi o confederali o giudiziosi o dissennati, si consultassero, facessero i loro piani di battaglia sempre e solo tra loro. Il mondo fuori è escluso, il mondo fuori attende solo il colpo del prossimo venerdì. Ma l’impopolarità può sempre armare la mano per chi vorrà dare – per legge, per mutamenti sociali, per rapporti di forza – il colpo di grazia. E sarà un colpo che partirà tra gli applausi, c’è da scommetterci: saldissimi, pur su piedi stanchi.
Tristemente, non somigliano più a Di Vittorio o a Lama, i sindacati. Non somigliano più al meglio che erano. Curvi sul loro ombelico, non fissano più le facce che li scrutano attorno. Vedrebbero rabbia, noia, furia pronta ad esplodere. Hanno ormai un leader ideale: il grintoso Scargill, di storica e definitiva sconfitta. E non servirà neppure una Thatcher, per far polvere di antichi idoli. Gloria in polvere.
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