La prevalenza del Big Mac
Sono stato da McDonald’s, ma non è andata come le altre volte. Ho trovato un tavolo con scritto sopra “Riservato”, una ragazza gentile è venuta a chiedermi cosa avrei voluto mangiare e dopo qualche minuto mi ha portato il panino che avevo chiesto, con le patatine e la Coca. La ragione di questo trattamento eccezionale non sono io ma la persona che ho di fronte: Roberto Masi, 51 anni, amministratore delegato di McDonald’s Italia. Siamo ad Assago, poco fuori Milano, penultima fermata della verde, ai piedi della sede italiana della più grande catena di fast food al mondo. Masi è un signore alto e distinto, fatto a forma di manager, con una parlata allo stesso tempo informale e accorta. Forse l’avete visto di recente in tv: da qualche tempo lo invitano nei talk-show politici, da “Ballarò” a “Piazzapulita”. Lui ci va per “rompere le barriere”, dice.
“In Italia la nostra quota di mercato vale appena il 2 per cento del settore del ‘mangiare fuori casa’, che comprende tutto, la mensa, il bar, lo chef stellato e la pizzeria. Il 2 per cento è il nulla. Abbiamo grandi potenzialità di crescita, ma se non sfondiamo alcune barriere questo potenziale è sprecato. Quando una persona va in pizzeria o al bar non si pone il dubbio ‘da dove verrà la carne’, ‘chissà se avrà le cucine pulite’: poi c’è bar e bar, certo, ma non c’è una barriera psicologica nell’entrare in un bar e mangiare un panino. Da McDonald’s sì. Questa barriera si è creata anche perché noi in trent’anni non siamo stati capaci di cambiare. Fino a qualche anno fa eravamo impresentabili”. Impresentabili è un aggettivo piuttosto di moda, noto; ma soprattutto è una parola grossa, specie se detta da lui, e quindi gli chiedo di spiegarmi meglio. “Quando sono arrivato in McDonald’s, nel 2008, mi sono reso conto che dovevamo mettere a posto alcune cose. Ho chiesto: queste mele da dove arrivano? Mi hanno risposto: dalla Repubblica Ceca. Ma come dalla Repubblica Ceca? Mi han detto: quando abbiamo deciso di vendere le mele c’era già uno stabilimento operativo quindi abbiamo attinto lì. Poi ho chiesto: la carne da dove arriva? Mi hanno risposto: da Cremonini. Ok, Cremonini è italiano, ma dove la prende? La mucca da dove arriva? Non lo sapevamo”. Messa così, è una storia che si scrive da sola: grande multinazionale americana mette al primo posto gli introiti a danno delle identità locali promuovendo omologazione e bassa qualità eccetera eccetera. Ma il capitalismo ha questo di bello, tra le altre cose: che la concorrenza e le pressioni dell’opinione pubblica possono cambiare le cose; e Masi, che viene da quindici anni nella grande distribuzione, sa che agli italiani quello che mangiano importa parecchio. Negli ultimi anni, per difendere il suo business dalla crisi e dai cambiamenti di abitudini e costumi, in Italia McDonald’s è passato dal 15 all’85 per cento di filiere italiane. Oggi le sue insalate arrivano dalla Lombardia, il pane si fa a Modena, le arance sono siciliane, le mele arrivano dalla provincia di Bolzano, l’olio dalla Calabria. La carne bovina è tutta italiana: Masi dice che in due ore sanno ricostruire la filiera completa di ogni singolo hamburger, fino alla mucca. “Oggi ritengo di avere un’azienda presentabile: abbiamo messo a posto i fondamentali. Chi vuole venire in cucina, visitare i nostri fornitori, è benvenuto: pensiamo di essere i primi della classe”. Quindi è il momento di “rompere le barriere”, e se per farlo bisogna discutere con Salvini e Landini in tv, che sia.
Tutto questo, naturalmente, non è gratis: comprare le mele in Val di Non costa di più che prenderle in Repubblica Ceca, e lo stesso vale per la carne e il resto. In generale questa scelta mette in discussione una delle caratteristiche tipicamente associate alle grandi multinazionali: la massimizzazione del profitto a tutti i costi. Il discorso è persino più ampio di così: negli ultimi anni si è incrinata anche l’omologazione totale dei prodotti, famosi per essere uguali da New York a Shanghai, vista la forte presenza di cibi e panini a caratterizzazione nazionale – anche con ingredienti Igp e Dop – nell’attuale menu di McDonald’s. “Il periodo in cui un’azienda poteva arrivare in tutto il mondo con lo stesso prodotto è finito”, dice Masi. “Noi non molleremo mai il Big Mac, le patatine fritte, i nostri prodotti globali. Non vogliamo perdere quel valore lì, ma stava diventando un limite. La globalizzazione ha bisogno di un aggiustamento. Perché se sei in Italia non ti avvicini un po’ ai gusti italiani? Se vuoi rimanere sul mercato devi adeguarti ai consumatori. Prendi i vegetariani. In quattro anni il numero di persone vegetariane in Italia è passato dal 2 al 7 per cento. Se non rispondo a queste persone, sono un’azienda ottusa. Ci siamo guardati e ci siamo detti: noi ce ne vogliamo sbattere di questi?”. Due settimane fa è arrivato il primo panino vegetariano di McDonald’s in Italia, il McVeggie; da luglio ci sarà una sezione fissa dei menu interamente dedicata ai prodotti vegetariani. Poi arriverà anche il “salad bar”: l’angolo delle insalate, preparate sul momento e con ingredienti scelti dal cliente.
C’è un’altra cosa che sta iniziando a venir meno, tra quelle solitamente associate a una grande catena di fast food: la recente esplosione delle hamburgerie – piccole e grandi, hipster e scrause – sta logorando la rendita di posizione di McDonald’s frutto della distribuzione capillare sul territorio. “Nel breve periodo questo fenomeno ci danneggia. Fino a dieci anni fa c’era solo una catena che offriva l’hamburger ed eravamo noi: ora non è più così. Però nel medio-lungo termine questa moda sarà un’opportunità”.
“Per trent’anni in azienda ci siamo lamentati che gli italiani non mangiavano gli hambuger – continua Roberto Masi –, perché non era nelle nostre tradizioni alimentari e culturali. Se il fiorire di queste nuove abitudini sdogana l’hamburger come un piatto normale, come un’insalata o un filetto, noi abbiamo solo da guadagnarci. Si allarga il mercato: abbiamo trainato questa moda e ne verremo trainati”. Ho sentito bene, “abbiamo trainato”? “Noi pensiamo di essere stati indirettamente un pezzo della causa di questa esplosione degli hamburger. Negli ultimi cinque anni tutto il mercato del mangiar fuori casa ha perso il 10 per cento. L’unico segmento che cresce è l’hamburgeria. Se negli ultimi cinque anni avessimo detto: licenziamo, non apriamo più ristoranti, gli azionisti americani scappano… non so in quanti avrebbero aperto. Invece noi continuiamo a dire che investiamo. Qualche anno fa chi voleva investire nella ristorazione apriva una pizzeria, una gelateria, un agriturismo… oggi invece tutti aprono hamburgerie. D’altra parte se studi i dati di mercato, e l’unica cosa che cresce è l’hamburger, cosa fai?”.
Oggi McDonald’s ha in Italia 18.500 lavoratori, ma se si tiene conto anche dell’impatto indiretto, e quindi dei fornitori e dell’indotto, si arriva a quasi 30.000 (dati SDA Bocconi). Durante la crisi non ha fatto licenziamenti né cassa integrazione, anzi ha assunto 4.000 persone solo negli ultimi tre anni. Se i lavoratori italiani sono in maggioranza uomini, quelli di McDonald’s sono in maggioranza donne; hanno un’età media di 28 anni e sono assunti per il 94 per cento con un contratto a tempo indeterminato. “Noi siamo visti come un lavoro schiavista, i McJob, etc”, dice Masi, “e il nostro è indubbiamente un lavoro che è anche duro e faticoso: ma è stabile e sicuro, si può far carriera, si viene pagati a fine mese regolarmente. Il tutto in un settore in cui, dice la Cgil, in Italia un terzo dei lavoratori sono in nero. C’è una bella differenza tra lavorare in un nostro ristorante e lavorare fuori”.
L’anno scorso McDonald’s ha aperto in Italia 34 nuovi ristoranti, il piano è aprirne altri 27 o 28 quest’anno e in generale un centinaio nel prossimo triennio: le nuove aperture hanno permesso all’azienda di chiudere i bilanci con un segno positivo anche negli anni peggiori della crisi, quando i ristoranti già esistenti faticavano parecchio. Masi spera in futuro di avere più intuizioni felici come i panini a caratterizzazione italiana (“Abbiamo dovuto interrompere prima del tempo la campagna sui McItaly perché non siamo riusciti ad avere rifornimenti a sufficienza per soddisfare la domanda”) e meno fallimenti come la pasta fredda, tentata qualche anno fa insieme con Barilla (“Volevamo vedere se c’era spazio per entrare nel mercato della pasta calda, ma è andata molto sotto le nostre aspettative”); e dice che cercherà di risolvere la questione che definisce “la mia disgrazia”, cioè i McDonald’s aperti in franchising dentro gli aeroporti. “E’ un mercato in cui domina il concessionario. Il cliente non capirà mai perché un Big Mac costa 5,90 euro in tutta Italia ma lì dentro è 6,90. E quindi pensa: che fai, mi freghi anche tu? Noi non vogliamo dare la sensazione che freghiamo i clienti. Nel tempo o quei ristoranti arriveranno a offrire lo stesso prezzo o non rinnoveremo il contratto”. Intanto si gode Expo e l’attenzione mediatica che ne sta ricevendo.
[**Video_box_2**] “Noi siamo contenti, i numeri dei nostri clienti lì stanno salendo di giorno in giorno, e in generale non capisco le polemiche. Ora Carlo Petrini dice che il problema è che nell’Expo non ci sono contenuti. Ma le Esposizioni universali non hanno mai cambiato il mondo, si sapeva, bastava informarsi. Noi contiamo che le persone vengano qui in vacanza, giusto? E cosa vogliamo, che 20 milioni di persone vengano in vacanza a intristirsi con la fame nel mondo? Il tema è importante, i convegni e gli ospiti servono, ma queste persone vengono anche per trovare uno svago, per rilassarsi, per vedere qualcosa di bello. L’hai visto il padiglione di Slow Food? E’ triste. Non c’è niente”. Un tempo i dirigenti di McDonald’s sarebbero stati alla larga da dibattiti e polemiche del genere, gli faccio notare: profilo basso, far bene gli hamburger ed evitare di diventare un caso. “Ci piacerebbe accreditarci come un’azienda normale. Per farlo ci manca l’ultimo miglio, che è far diventare McDonald’s un pezzo del normale dibattito. La Fiat ne fa parte, Eataly pure, perché non possiamo farne parte noi? Quando sono arrivato in quest’azienda ho chiesto un incontro al ministero dell’Agricoltura. Non mi hanno nemmeno risposto. Ho riprovato e mi hanno detto: guardi, non c’interessa. Ora le cose sono cambiate. In sette anni abbiamo preso due patrocini del ministero; loro vorrebbero che tutta la filiera alimentare in Italia applicasse i nostri standard. Oppure prendi Coldiretti. Se sette anni fa leggevi le loro dichiarazioni su di noi, erano come quelle di Petrini. Oggi invece è un po’ che bussano, vogliono stringere un accordo pluriennale con noi e li incontreremo presto”.
Masi dice queste cose con un orgoglio quasi rivendicativo, nel quale si leggono obliquamente i segni di anni di critiche durissime e aggressive, e conseguenti frustrazioni: gli chiedo se non c’è il rischio che un tono del genere, quando va nei talk-show, possa essere percepito come arrogante o comunque portare più problemi che vantaggi. “Il motivo per cui gli americani mi hanno preso sette anni fa è che in Italia avevamo fatto un po’ di errori. Mi hanno detto: abbiamo bisogno di un manager italiano che metta la sua faccia davanti a un brand che altrimenti è percepito come il consumismo, il diavolo. Io da anni invito Carlo Petrini a un dibattito pubblico, ma lui non viene e d’altra parte non gli conviene. E’ più facile confrontarsi con un’entità astratta come ‘la multinazionale americana’ piuttosto che parlare direttamente con gente normale che cerca di fare le cose bene. Se scriviamo un comunicato, lo scriviamo noi, non gli americani”. Ecco, per esempio qualche tempo fa un comunicato sull’Expo a un certo punto accusava il fondatore di Slow Food di non avere “rispetto per la libertà delle persone” e di fare “retorica terzomondista”. Perché una scelta così dura? “In azienda mi han detto: Roberto, ma sei matto? E io: ma dài, basta, scrivi che l’ha detto Roberto Masi, nel caso licenziano me”.
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