Roma senza più potere
Chi comanda oggi a Roma? I borgatari in marcia sul Campidoglio, i Buzzi, i Carminati, gli Odevaine, i Tredicine e i loro caldarrostari? Il clan dei Casamonica e l’impero degli zingari o i monnezzari del Supremo, Manlio Cerroni, boss della discarica di Malagrotta finito anche lui in manette? Il romanzo popolare spappola la capitale tra Ostia e la Magliana, eppure non convince. Un tempo i professionisti della tangente venivano considerati papponi (“Ce stamo a magna’ Roma”), nel senso di leonini e di ghiottoni insieme. Un tempo, quando il potere laico era solidamente insediato nel triangolo tra il Corso, Piazza di Spagna e il Tritone. E il potere religioso seguiva il percorso delle sette Chiese fino al Vaticano.
Allora c’erano le banche (Cassa di Risparmio, Banco di Roma, S. Spirito) poi confluite in Capitalia, c’era Palazzo Chigi e il Tempo di Renato Angiolillo lasciato al pupillo Gianni Letta. Poco più giù, in Piazza S.Lorenzo in Lucina, l’ufficio privato dove Giulio Andreotti riceveva clienti e questuanti, in faccia alla Via Condotti dei Bulgari, dei Battistoni, di Valentino, le vetrine della Roma opulenta finite tutte a Parigi, a Londra, in Qatar. E ancora la scalinata di Trinità dei Monti e i suoi arrampicatori sociali, come raccontano Bruno Vespa e Candida Morvillo nel loro amarcord sul salotto pettegolo di Maria Angiolillo. A cento metri di distanza, l’occhio sulla città e la sua voce: il Messaggero, dominato dal fortilizio del Quirinale.
Da sempre la toponomastica del potere ne rivela la forma, e la Roma riedificata dai massoni piemontesi, ma pur sempre papalina, non sfugge certo alla regola. Ebbene, tutti quei luoghi stanno cambiando perché cambia la ragnatela dei potenti. E Roma diventa all’improvviso una grande ciambella con al centro un buco. O magari riempita dal mondo di mezzo. Qui i pareri si dividono, anche se prevale la teoria del buco.
La Grande Banca s’è fatta milanese, anzi un po’ tedesca. Chi bussa alla porta di via Minghetti 17 non trova più Cesare Geronzi che apre il suo ufficio al palazzinaro e al patron della squadra di calcio, al finanziere rampante e al manifesto, “giornale comunista”, alla Dc e al Pci al quale salvava i bilanci. Ha cercato di prenderne il posto Fabrizio Palenzona, ex politico fattosi banchiere, un democristiano trasversale: come vicepresidente di Unicredit riceve nel suo ufficio in Via degli Specchi, traversa del Corso. Ma viene un paio di giorni la settimana e passa il suo tempo per lo più a Fiumicino perché l’Aeroporto del quale è presidente gli dà un bel po’ di grattacapi.
La stanza di compensazione ha chiuso i battenti e Roma ha perso via via anche gli altri centri di potere. L’Iri, per esempio. Nel fascistissimo palazzo è rimasto il ministero dell’Industria, oggi chiamato dello Sviluppo, senza industrie da guidare e con scarso sviluppo. Poco più un là, in Via Bissolati, c’era la sede Fiat progettata anch’essa da Marcello Piacentini: nella foresteria all’ultimo piano si facevano e disfacevano i gabinetti ministeriali. L’Eni ha portato il quartier generale nella triste San Donato, periferia di Milano: sul laghetto dell’Eur resta un orgoglioso e mesto ricordo dominato dagli scheletri di vecchi grattacieli, mentre sulla città ideale del fascismo incombe la Nuvola incompiuta e maledetta.
Pochi si sono chiesti perché Tangentopoli ha risparmiato Roma. Ebbene, la capitale è sfuggita finché il sistema ha impedito la guerra di tutti contro tutti scoppiata a Milano. Oggi quel tessuto connettivo si è sfarinato. Il vecchio mondo muore, il nuovo non è ancora nato, e lo spazio viene occupato dai parassiti di Mafia Capitale. La situazione peggiore scriveva Antonio Gramsci. Anche questa, però, è solo una parte della realtà. C’è dell’altro, molto altro, c’è un universo in movimento, ma senza un polo d’attrazione.
“Lei sta sbagliando, cerca un centro mentre oggi il sistema è fatto a rete; lei vuole dei luoghi, invece ormai contano i processi”: Luigi Abete non la smette di essere entusiasta e ottimista. Né fiction giudiziaria né Roma sparita, è in corso una transizione, dolorosa anch’essa come quella che sta attraversando l’intero paese: “Abbiamo cambiato il ceto politico; un salto generazionale, mica bruscolini”. Distruzione creatrice, meglio di rottamazione, perché fa intravedere anche il futuro. Abete ha ereditato una tipografia ed è diventato imprenditore editoriale, ex presidente della Confindustria, presidente della Bnl e di Cinecittà World, si sta dando molto daffare per offrire di Roma un’immagine proiettata in avanti, con industriali che vanno all’estero, aziende d’avanguardia, infrastrutture da terzo millennio.
Un connubio ancora acerbo di media, show business e modernismo, un invito a nozze per la filiera romana di Luca Cordero di Montezemolo. Lasciata con amarezza la Ferrari, il figlioccio di Gianni Agnelli presiede l’Alitalia riverniciata dagli sceicchi di Abu Dhabi che egli rappresenta anche nel consiglio di amministrazione di Unicredit. Il quartier generale del club è il circolo Canottieri Aniene dove tesse la trama Giovanni Malagò, diventato presidente del Coni. Tra i soci anche Cesare Romiti: da boiardo di stato a salvatore della Fiat, da editore del Corriere della Sera a finanziere e costruttore, ha dato alla romanità una veste nazionale.
Se vogliamo trovare una delle nuove reti, dunque, oggi dobbiamo allargare lo sguardo fino al Golfo Persico. L’operazione Etihad-Alitalia può essere la prima fase di una strategia che punta a trasformare Fiumicino in un grande hub internazionale. La società Aeroporti di Roma è controllata dai Benetton. Lo scalo è una fonte infinita di guai (ultimo l’incendio al Terminal 3) e la famiglia di Ponzano Veneto vorrebbe cedere il 30 per cento: sono interessati gli arabi di Abu Dhabi (ancora loro) o quelli del Kuwait. Il suo ampliamento richiede ingenti investimenti e ha implicazioni importanti su un territorio che si estende fino a Maccarese, la grande azienda agricola che i Benetton hanno acquistato dall’Iri.
Attorno all’aeroporto è già sorto un polo commerciale, ma è fallita l’operazione Fiera di Roma, sbagliata fin dall’inizio secondo Abete che vorrebbe trasformarla radicalmente: in parte cittadella dell’artigianato, in parte centro congressi in rete con l’Eur, il resto fiera intesa come grande supermarket. Un raddoppio di Fiumicino, progetto che risale ormai a un quarto di secolo fa, sposterebbe l’asse urbano sempre verso il mare, come volevano già i pianificatori del Duce, ma non più nella mangiatoia sottoproletaria di Ostia.
E’ qui dunque il nuovo motore, quello che può rimettere in movimento i palazzinari prostrati dal collasso dell’edilizia? Anche il mondo delle costruzioni ruotava attorno alla rande banca romana. Con la fusione di Capitalia in Unicredit i satelliti hanno cambiato orbita, la recessione ha fatto il resto.
I fratelli Toti, Pierluigi e Claudio, già azionisti di Gemina, Rcs e Capitalia, sono tornati al loro mestiere originario con progetti di ampio taglio come l’area degli ex Mercati generali. Per fare cassa hanno venduto la Galleria Alberto Sordi al gruppo immobiliare Sorgente di Valter Mainetti tra i pochi che durante la crisi ha raddoppiato il patrimonio (oggi a 5 miliardi di euro). Luca Parnasi (il padre Sergio, stagnaro comunista, si buttò nell’edilizia subito dopo la guerra) punta sullo stadio della Roma a Tor di Valle. Nei nuovi progetti in corso d’opera va inserito il quartier generale di Bnl-Bnp Paribas a ridosso della stazione Tiburtina dove ritroviamo i Benetton sia pure insieme a Ferrovie dello Stato. Chi costruisce infrastrutture come Astaldi ormai lavora quasi esclusivamente all’estero. Salini, con l’acquisizione di Impregilo, è diventato “il campione nazionale che opera nel mondo”. Un percorso, quello compiuto da Pietro Salini dopo aver preso le redini della famiglia romana, che sta diventando paradigmatico.
Sulla stessa strada si è avviato anche l’Ingegnere che a Roma non è Carlo De Benedetti, ma Francesco Gaetano Caltagirone. La prima uscita dal seminato è avvenuta con l’editoria: il Messaggero, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia. Poi arriva il salto nella finanza nazionale con il Monte dei Paschi di Siena e le Assicurazioni Generali. Adesso sta varcando le Alpi: “Siamo decisamente orientati all’estero”, spiegano al quartier generale di via del Tritone. Cementir produce per lo più in Turchia, in Svezia, in Danimarca e proprio sul mercato scandinavo ha assunto una posizione rilevante. Nella gestione dei rifiuti guarda a Istanbul e a Manchester non a Malagrotta. Domus, la nuova società immobiliare sta per essere quotata in borsa e vuole attirare capitali stranieri. Il Gruppo Caltagirone si è liberato anche della partecipazione nell’autostrada Tirrenica, progetto senza prospettiva. In Acea dopo anni tormentati ha raggiunto un nuovo punto di equilibrio con gli altri soci: il comune e i francesi di Suez.
“Le radici restano romane”, spiega il torinese Fabio Corsico, capo delle relazioni esterne. Il Messaggero è un presidio solido: nonostante lo spazio occupato dalla Repubblica, mantiene una quota del 60 per cento. Però è evidente che Roma sta stretta all’Ingegnere, anche perché non è più Roma, quella di una volta e non è ancora la Roma del futuro, quella narrata da Walter Veltroni insieme alla Camera di Commercio presieduta da Andrea Mondello o alla Confindustria di Aurelio Regina: la Tiburtina Valley attorno all’elettronica per la difesa concentrata in Finmeccanica, modello americano; le biotecnologie legate alle università. L’ateneo di Tor Vergata è emerso come polo d’eccellenza in economia e in medicina (il suo policlinico tra l’altro ha macchinari modernissimi). La farmaceutica ce l’ha fatta (un nome per tutti Francesco Angelini, campione di bridge, re dei pannolini e dell’Amuchina). L’elettronica galleggia e Finmeccanica, finito l’espansionismo dell’era Guarguaglini, sta ripensando se stessa. La Camera di Commercio è depauperata.
“Cerca ancora il centro del potere? Vada dai vigili urbani”, ci invita con amara ironia Cesare Geronzi il quale ci descrive una Roma dai poteri deboli e non vede uomini capaci di affrontare il rinnovamento della città.
Lo prendiamo alla lettera e andiamo in Via della Consolazione 4, sotto la rupe Tarpea, nel fortilizio che si è ribellato al sindaco e ha vinto perché non ha subito serie conseguenze mostrando il suo potere d'interdizione. Hanno messo al comando un poliziotto; dopo l’arresto dell’ex capo Angelo Giuliani, c’è Raffaele Clemente, che viene dalla sala operativa della Questura. Ma la normalizzazione non ha funzionato. Come non funziona la scorciatoia giudiziaria.
[**Video_box_2**]Il sindaco Ignazio Marino ha tentato di riempire il vuoto di potere ricorrendo alla magistratura. Ha nominato Alfonso Sabella (all’Antimafia di Palermo con Gian Carlo Caselli) assessore alla legalità e commissario straordinario nel verminaio di Ostia. Ma Giuseppe Pignatone il procuratore capo “scopritore di nuove mafie”, passato da Palermo a Reggio Calabria e poi a Roma su impulso di Giorgio Napolitano, ha preso tutti in contropiede. E’ lui oggi l’uomo forte nella slabbrata mappa del potere capitolino.
L’inchiesta giudiziaria rischia di travolgere il sindaco non perché colluso, ma perché debole. Francesco Rutelli e Walter Veltroni hanno sfidato Silvio Berlusconi; hanno perso, però avevano la stoffa per entrare a palazzo Chigi. Nessuno lo direbbe dell’ex chirurgo, primo cittadino situazionista. Il ventilatore della procura sta gettando schizzi anche su Nicola Zingaretti, uomo della “ditta”, esponente della filiera che dal Pci porta al Pd, il politico più strutturato della non ricca scuderia capitolina. Mentre Roma si trova con un capo del governo che non la conosce, non la ama e la tiene a distanza. Lo stesso era accaduto con Berlusconi che però l'aveva lasciata al proprio plenipotenziario Gianni Letta. Renzi non ha un vicere: Matteo Orfini, giovane emergente, commissario straordinario (forse liquidatore) del Pd romano, nonostante la play station non fa parte del giglio magico.
La sinistra è scossa, la destra azzoppata, a cominciare dal puledro di razza, Luca Gramazio, figlio d’arte (il padre Domenico, senatore Pdl è stato un pilastro di Alleanza Nazionale). Resta Giorgia Meloni, resta Casa Pound che ha portato il leghista Matteo Salvini dentro Roma ladrona. Nel momento in cui si dovesse arrivare a una crisi in Campidoglio, il primo passaggio sarebbe il commissariamento, poi le elezioni. A quel punto avrebbe la sua occasione Alfio Marchini, figlio di palazzinari comunisti, campione di polo, federatore in pectore di un altro centro-destra. Antonio Tajani, leader di Forza Italia nella Capitale, ha già dichiarato di lavorare insieme per il dopo Marino. I tempi e gli esiti sono imprevedibili anche perché dettati dalla magistratura. Però c’è una scadenza importante: il giubileo indetto dal pontefice. Sarà francescano di nome e di fatto, ma la città papale può farsi trovare acefala e disorganizzata più che mai?
Siamo arrivati così al Vaticano e alla Curia. Nella nostra ricerca del potere (centro o rete poco importa), ci siamo imbattuti nel vuoto lasciato da figure forti come Camillo Ruini e dalla scelta bergogliana di allontanare sempre più le due sponde del Tevere. Roma ha avuto il primo sindaco comunista nel 1979 con Luigi Petroselli, ma persino allora la Chiesa, il Vicariato e la Curia erano interlocutori fondamentali, anzi veri e propri stabilizzatori. Anche questa funzione non c’è più.
In politica la Capitale è un peso piuma. Un tempo i romani potenti erano a Torino, a Milano, in Parlamento, a Palazzo Chigi. Oggi al vertice ce n’è uno, ma sta a Francoforte, si chiama Mario Draghi e parla l’idioma di Shakespeare non quello del Belli. E la città eterna torna al punto in cui l’aveva trovata Emile Zola nel 1894 quando arrivò per preparare il suo romanzone. Per uno dei protagonisti della storia, Luigi Prada, milanese, figlio di un garibaldino disilluso, la nuova capitale poteva essere “o un museo che crolla o una città rifatta. Aveva visto Parigi rinnovata dal Secondo impero, Berlino ingrandita e abbellita dopo le vittorie prussiane, se Roma non seguiva il movimento era minacciata di una rapida morte”. Oggi sta accadendo lo stesso, ma la storia che allora si trasformò in tragedia, si ripete come farsa. Piacerebbe a Zola e, ancora di più, al vecchio Marx.
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