Alfabeto per guerra giusta
Sgranocchiate tutte le prime lettere dell’alfabeto, compresa la E di emergenza, resta solo il piano G. Esattamente: lettera G, come guerra. Varcare il mare in armi e andare a mettere ordine sulla quarta sponda – ipotesi del resto abbozzata, ma subito ritirata, dal governo già in febbraio. Contando su alleati fidati e anche senza impossibile mandato Onu. Qualcosa di più robusto e concreto dei campi profughi “a casa loro” ipotizzati da Bobo Maroni, ex ministro leghista dell’Interno, che oggi guida la fronda con un eccesso di faciloneria. Il piano G, come ognuno sa, ha due pronunce diverse. La G dura, quella teorizzata da Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri: “Una politica estera aggressiva, la ricerca del casus, la pressione sugli alleati occidentali, la willing coalition per dare ordine al disordine africano e mediorientale”. Poi c’è la G dolce, che significava accettare il dato di fatto che la guerra già esiste e come tale va gestita, logicamente e logisticamente. In mezzo al mare e qui.
Conviene procedere in ordine alfabetico. Il piano B enunciato da Matteo Renzi prevede un’accelerazione sui rimpatri, la richiesta di ridiscutere il regolamento di Dublino (diritto d’asilo affidato al primo paese che accoglie/identifica il profugo). Inoltre la richiesta finora respinta in malomodo di un accordo su quote e redistribuzione dei migranti (“Tutta questa resistenza al piano Immigrazione della Commissione europea mi sembra poco lungimirante”, Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri). Un piano debole e rischioso, anche nel suo punto di forza: i permessi temporanei che l’Italia concederebbe ai richiedenti asilo per permettere loro di passare le frontiere. Un provvedimento che potrebbe irritare i partner europei e indurli a seppellire definitivamente la proposta Juncker sulle quote. Su Dublino, il rischio è di sbattere contro Angela Merkel.
Il piano G duro ha i costi veri di una guerra. Di natura militare, umana ed ecomomica. Soprattutto, la guerra oltre frontiera avrebbe “un costo politico, civile e sociale superiore al diffondersi della paura, superiore alla paura stessa nuda e cruda, e magari al disgusto per il decoro violato della nostra pace semisecolare” (Ferrara). Eppure, di fronte all’abbandono (tradimento) da parte dei partner europei, c’è da assumersi la responsabilità di un piano G. Chiedere alla Francia – che ha un dovere di vicinanza e di coste bagnate dallo stesso mare – o alla Gran Bretagna, che è lontana ma in quel mare un ruolo possiede, di intervenire assieme, willing coalition o altro che sia. Ma boots on the ground con un’azione di peace-keeping, o enforcing, o di polizia internazionale. Altrimenti, l’Italia esponga all’Europa un piano G dolce. Noi siamo il vostro confine sud, che non volete aiutarci a rendere sicuro. Allora ce ne occupiamo noi: pattugliamo, raccogliamo, smistiamo e registriamo profughi e migranti, aventi diritto e no. Poi li ripartiamo secondo le quote. O li rimandiamo a casa, o ne accogliamo la nostra parte. In cambio di cosa? Di una divisione dei costi. L’offerta di un trade off con un senso logico e politico. Saltino il patto di stabilità, i vincoli sul deficit e di politica fiscale. Insomma, noi facciamo la guerra per conto vostro, voi contribuite al conto.
[**Video_box_2**]Impensabile? Nell’emergenza servono coraggio e fantasia, non solo narrazioni. A fine aprile Massimo Nava sul Corriere della Sera ha suggerito Pianosa come luogo logisticamente ideale per fare affluire i migranti: un luogo controllato, facilmente gestibile, abbastanza capiente, infrastrutturabile per l’emergenza. La nostra Ellis Island. Come i campi di raccolta che esistono altrove, in Turchia o in Libano, e sono sempre esistiti. L’idea suscitò polemiche. Due mesi dopo, Nava ne è ancor più convinto: “Ovviamente si possono trovare altre soluzioni, e ci vogliono cautela e modi e parole giuste. Ma è evidente che è meglio così che non disperdere i profughi qua e là”. Sul nostro piano G, sottolinea: “Ha più senso proporre questo a Hollande, che non dire ‘ve li spediamo lo stesso’ coi visti temporanei, il che ha il sapore di un ricatto, sarebbe solo una guerra tra ricchi fatta coi poveri. Invece ben venga un’assunzione di responsabilità che quel flusso va gestito”. Un esperto di cose militari come Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it, ha dubbi che il “modello Pianosa” possa funzionare, “aumenterebbe solo gli sbarchi e creerebbe tensioni: i profughi vogliono solo andarsene”. Propone invece dei “respingimenti assistiti”, che al costo delle attuali operazioni già in essere consentirebbero di riportare in Libia i profughi e affidarli all’Onu, “che sarebbe responsabilizzata a fare ciò che deve, e non fa”. Non sarebbe un’azione ostile contro uno stato estero, sarebbe una seria politica militare. Un po’ sulla falsariga di quella australiana. L’Europa non si intrometta.
E i costi e le riserve politiche? La verità è che Renzi non ha molte alternative. Sa che un disastro sul fronte immigrazione avrebbe un costo di consensi enorme, anche a sinistra. Persino il pacatissimo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha sbottato con un giornalista petulante: “Perché non se li porta a casa lei?”. Una guerra condotta in acque e suolo italiano per conto dell’Europa non metterebbe al riparo il governo dalla demagogia della Lega, però la costringerebbe a scegliere tra l’urlo e la “gestione dei nostri interessi” sostenuta da Maroni, che se non vuole tendopoli in Lombardia dovrà accettare di averne altrove. L’Europa dirà di no? Si vedrà. Renzi incontrerà François Hollande e David Cameron nei prossimi giorni, all’Expo. Dovrebbe, tanto per iniziare, sorridere meno che a Putin. L’alternativa è affidarsi al proverbiale lato B, di recente già parecchio sculacciato.
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