Abolire il carcere, sfigurata caricatura di un monastero senza libertà
Diceva Altiero Spinelli che il carcere è una “piccola società cenobitica”, un monastero che impone al detenuto un insieme di regole ascetiche. L’ultimo capitolo di “Abolire il carcere”, il libro di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta pubblicato da Chiarelettere, ripercorre le tappe di questo perverso noviziato. Si comincia con la matricola, la perquisizione in ogni possibile orifizio, la visita medica, l’abbandono dei segni dell’identità precedente (documenti e oggetti personali), una fase che trova il suo corrispondente monastico nella spoliazione e nella tonsura. Poi si è accompagnati alla cella, non dal priore e dalla comunità dei confratelli, ma da uno stuolo di poliziotti. Comincia allora una vita di preghiera, che in carcere prende la sinistra forma burocratica della “domandina”, la richiesta da compilare e da inoltrare ai numi dell’autorità penitenziaria per ottenere l’accesso ai benefici più elementari. I tre voti religiosi – castità, povertà, obbedienza – sono anch’essi sfigurati in caricatura; specie l’obbedienza, che si traduce nella mimica servile della buona condotta, in un’umiltà affettata dietro la quale (cito ancora Spinelli) “può fiorire una orrida vegetazione di risentimenti, di cattiverie e di pervertimenti”.
Spogliato di ogni responsabilità e di ogni individualità, trattato come un bambino (una parodia dell’infanzia spirituale del monaco), il detenuto attraversa spesso la sua pena “perinde ac cadaver”, come un corpo morto. Il tempo cessa di scorrere, i giorni si fanno indistinguibili e vuoti. L’ora d’aria in cortile (il chiostro) offre l’unica variazione, perché non c’è neppure la mensa (il refettorio). Così questo novizio coatto cade preda di tutti i demoni meridiani, soccombe all’accidia, alla disperazione, al rinsecchimento spirituale; solo che di quiete e di silenzio non c’è traccia, è tutto uno sferragliare di porte blindate, di sbarre percosse con il tondino d’acciaio, di chiavi girate nelle serrature. Non stupisce che i monasteri confiscati, nell’Ottocento, siano stati così facilmente convertiti in prigioni. “Il carcere penale”, proseguiva Spinelli, “proviene idealmente, se non erro, da un’idea tutta cristiana: maciullare il corpo, perché l’anima si salvi. Non escludo che ciò sia possibile. Ma lo è solo quando è l’anima stessa a decidere di mortificare il proprio corpo, quando l’ascesi è liberamente scelta, e non quando è imposta da una autorità esterna. In tal caso si stritola l’anima prima ancora del corpo”.
[**Video_box_2**]L’affinità con il cenobio è più accurata di quella con lo zoo, che pure è lampante. Perché le gabbie con gli animali esotici sono allestite per un pubblico, esistono per essere offerte in spettacolo; il monastero, al contrario, coltiva il suo felice isolamento. Ed è bello sperare, con un po’ di sventatezza socratica, che se il carcere non fosse così ostinatamente sottratto agli sguardi, se tutti potessero conoscerlo, ben pochi avrebbero voglia di difendere un’istituzione così rozza, insensata, costosa, fallimentare, minacciosa per quella stessa sicurezza che dovrebbe tutelare, gravida di danni collaterali che sommergono i rari benefici. Altiero Spinelli diceva che l’unica possibile riforma del carcere è abolirlo, e inventarsi qualcos’altro. Lo stesso pensano gli autori di “Abolire il carcere”, che elencano le alternative alla detenzione praticate nel mondo e presentano anche un decalogo abolizionista. Aggiungo una undicesima proposta: convertire le prigioni in monasteri.
Guido Vitiello
Il Foglio sportivo - in corpore sano