Il mito dell'inglese
A giugno, nelle strade di Milano, li riconosci subito, i bambini delle scuole internazionali, quelli della scuola inglese e francese: sono gli unici rimasti con la cartella sulle spalle (i francesi sono gli ultimi, questa settimana, a chiudere l’anno scolastico). Le loro mamme, orgogliose della scelta scolastica proiettata nel futuro, confessano che la comodità di finire così tardi e iniziare prima è impagabile, “almeno giugno è andato”. I bambini della scuola italiana sono già in vacanza dall’inizio del mese, li vedi con i cappellini e le tute che trotterellano verso l’oratorio, il camp estivo o il corso di arti creative (qualunque cosa sia), mentre alcune mamme temerarie sono uscite dal quartiere e si sono organizzate per “esperienze diverse”, va forte il canottaggio, anche se devi pedalare con una o due creature nei seggiolini – non è nemmeno legale – e quando piove è un dramma, perché la metropolitana là non ci arriva. C’è il bambino allegro, quello annoiato, uno che dice “i miei amici sono tutti al mare” e suona già vendicativo, l’altro che piagnucola “fammi stare a casa, almeno c’è la tv”, le mamme si guardano senza parlare, tutte ugualmente stordite al pensiero che le vacanze continueranno fino a metà settembre (sì, metà settembre, e nella riforma della Buona scuola nessuno che abbia pensato al fatto che quattordici settimane di vacanza di fila sono una violazione dei diritti umani). “Almeno non fa tanto caldo”, dicono per consolarsi, ma se poi luglio al nord è come l’anno scorso, acquazzoni e sventagliate, auguri con la casa al mare, bimbi-nonna-tata chiusi in casa, una convivenza da esaurimento nervoso fisso.
Ah, i bambini della scuola inglese. Il mito del modello anglosassone aleggia anche qui, lontani migliaia di chilometri come siamo dalle coste inglesi, con qualche esperienza personale da raccontare – là i bambini fanno i compiti prima di andare a scuola, schede di calcoli da compilare e controllare alla mattina presto quando nemmeno un genitore sa dire quanto fa 7+8, e intanto i fornelli sono accesi, ti va bene il panino con il roast-beef di ieri sera?, è il pranzo da mettere nello zaino, perché non tutte le scuole prevedono il servizio mensa – e molti sospiri. Così, emulando un modello di cui sai poco o niente ma che luccica, obblighi i bambini già isterici a guardare i cartoni in inglese, ti metti anche tu a parlare in inglese, con l’accento terrificante che hai e che fa sembrare ogni frase ridicola, l’umiliazione sempre in agguato, “mamma, sei sicura che si dica così?”, compri eserciziari estivi in inglese, poi ci mettiamo lì e li facciamo insieme (con “quality time” che ti lampeggia negli occhi), violando la regola che vale per tutto il resto dell’anno, cioè che i compiti te li fai da solo, amore. Saper parlare inglese e sposare il modello educativo inglese è un’unica cosa, comunque they do it better, basta che quando la creatura abbozza una frase in lingua non abbia una fastidiosa (la mia) cantilena emiliana.
Se poi i britannici siano davvero migliori di noi in materia di educazione, non è facile dirlo, i parametri internazionali che valutano i sistemi di istruzione mostrano un’eccellenza che si sposta dal nord Europa al sud-est asiatico, noi non ci siamo mai stati lassù, ma nel Regno Unito le polemiche sui test che non sono sufficienti per una valutazione complessiva degli studenti, e comunque sono sempre o troppo facili o troppo difficili, sono all’ordine del giorno. C’è però, questo sì, un grosso investimento politico sulla famiglia e sull’educazione. Qualche giorno fa il premier conservatore, David Cameron, ha tenuto un discorso su questi temi, ha parlato di come dovrebbero essere organizzati i servizi alle famiglie e di come dovrebbero essere i genitori con i loro figli (si tratta di consigli, non di ingerenza dello stato nei fatti privati: la vocazione liberale è salva). Per avere opportunità sempre maggiori, c’è bisogno di “famiglie solide” che diano ai figli “the best start in life”, un inizio scoppiettante, ha detto il premier Cameron in un discorso in cui ha parlato di welfare e diritti e aspirazioni, c’è bisogno di “un grande sistema di istruzione che coinvolga tutti”, e di un “sistema di welfare che incoraggi il lavoro”.
Come spesso accade negli affari di famiglia – impari i problemi quando ci sei in mezzo, se te li dicono gli altri ti addormenti – Cameron ha raccontato le sue preoccupazioni per la figlia Florence, che inizia la scuola a settembre, ma compie i quattro anni il 24 di agosto, sarà tra i più piccoli, e gli studi dicono che i bambini nati tra aprile e agosto sono quelli che restano più facilmente indietro, non recuperano più, perché poi lì – modello anglosassone – chi va forte continua a farlo, chi resta indietro arranca per sempre. Alcune mamme hanno fatto petizioni per mandare i bambini a scuola l’anno successivo scontrandosi con le scuole che imponevano comunque l’iscrizione (qui è più frequente sentire elucubrazioni sui primini, sì o no, il papà vorrebbe tanto, la maestra sconsiglia, non so che fare, l’infanzia dovrebbe durare il più possibile, ma cosa dici, disegnare e giocare con la pasta di pane per anni?, prima iniziano meglio è, nel resto del mondo i bambini vanno prestissimo a scuola, già siamo indietro su tutto, almeno mandiamoli a scuola prima che si può). Cameron ha ristabilito un ordine: “Siccome tutti gli studi mostrano che se ti concentri sui primi anni di vita dei figli ci sono maggiori possibilità di trasformare la vita di un bambino, vogliamo creare un’offerta ben più coerente di quella attuale per sostenere figli e genitori nei primi anni, mettendo insieme quei servizi che rendano possibile ai bambini di essere pronti alla scuola all’età di 4 anni”.
Questi servizi prendono il nome di “Family hub”, un progetto che nel mondo social-conservatore è nell’aria da tempo e che fa parte di una “rivoluzione sociale” che a Downing Street è portata avanti soprattutto da Oliver Letwin, uno dei più importanti collaboratori di Cameron, cresciuto con una mamma fan della libertaria Ayn Rand, amante di Orazio, considerato il più influente dei conservatori, dopo il premier e il suo cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. I “Family hub” sono centri in cui non soltanto si sostengono i bambini, ma soprattutto le loro famiglie: corsi preparto, servizi di anagrafe, corsi per i primi mesi di vita, sostegno per i rapporti famigliari, per il matrimonio, per il coinvolgimento dei padri quando i genitori sono separati (ma anche quando sono in casa), sostegno ai nonni, e tutto quel che riguarda il ciclo di vita di una famiglia. E’ un modello che viene dall’Australia, dove è già avviato – si chiamano Family Relationship Centres – ed è già presente in alcune aree del Regno Unito.
L’urgenza degli annunci di Cameron deriva da una cifra che è circolata qualche tempo fa, dopo la pubblicazione di un report della Relationships Foundation e ribadita dal Centre for Social Justice: il costo del “family breakdown”, il collasso della famiglia, nel Regno Unito oggi può raggiungere i 46 miliardi di sterline (circa 65 miliardi di euro). Paul Goodman, direttore di ConservativeHome, un sito di analisi politica che si occupa in modo puntuale dei problemi sociali del paese dal punto di vista conservatore, ha scritto: “E’ una cifra più grande dell’intera spesa del governo scozzese. E’ più grande della spesa di alcuni ministeri britannici, in effetti è più grande della spesa dell’Interno, dei Trasporti e della Giustizia messi assieme. E’ una cifra non lontana dal costo annuale del debito britannico, una questione che preoccupa tantissimo molti di noi dell’area del centrodestra”. Oltre ai costi economici, che sono enormi, il collasso della famiglia comporta anche costi sociali ancora più grandi, danni emotivi, opportunità perdute, possibilità ridotte, come racconta Steve Hilton, ex guru cameroniano senza cravatta e senza scarpe, nel suo ultimo libro “More Human”, quando descrive come alcuni bambini siano già fuori dal “sogno britannico” nel momento in cui nascono.
[**Video_box_2**]E’ un costo che nessun paese può permettersi, non certo uno in cui il premier ha appena rivinto le elezioni, e programma cinque anni per finire il lavoro iniziato nel 2010, quando la crisi economica scardinava attese e risposte. Cameron rivendica il fatto che molte famiglie “troubled” sono già state salvate e reintegrate nel sistema, circa 117 mila, per un risparmio ai contribuenti inglesi di 1,2 miliardi di sterline, i giornali di sinistra dicono che il numero è gonfiato, non ci sono conferme statistiche, ma sanare il sistema curando la famiglia è un principio che il premier rivendica. Fornendo anche qualche consiglio: bisogna essere esigenti, con i bambini, non si può solo assecondarli, ogni tanto è necessario pretendere. Qui da noi, ma forse anche là nel luccicante modello anglosassone, i genitori tendono a essere i sindacalisti dei loro figli, sono pronti a dare sempre e solo ragione alle creature, a scontrarsi con gli insegnanti che segnalano problemi più o meno rilevanti (al netto della bolla d’apprensione che tutto avvolge, secondo la quale ogni distrazione diventa una sindrome, ogni capriccio è sintomo di chissà quale patologia), a schierarsi compatti contro la scuola che, superficiale e non valorizzata, non comprende i talenti. Tra l’ossessione per attività originali e selezionatissime (dai costi improponibili) e l’iperprotezionismo, l’educazione dei bambini rischia di guastarsi. Cameron dice che il governo britannico è pronto a mettere a disposizione fondi e strutture per sostenere le aspirazioni delle famiglie, quella mobilità che prende il nome di sogno in qualunque paese la si declini, ma i genitori devono imparare a stimolare i loro figli, a non lasciare che o il troppo benessere o la troppa povertà rovinino quell’inizio scoppiettante in cui tutto è ancora possibile.
Noi restiamo qui con il nostro mito inglese, contando sulla possibilità che lo spirito riformatore sulla scuola non resti impantanato tra sindacalismi di vario tipo, cullando anche noi un sogno, e accontentandoci quando il più piccolo, già introdotto all’inglese attraverso lezioni private costose e faticose, una tortura per l’intera famiglia durata un anno, dice di sapere anche lui l’inglese, cosa credete, dài dicci qualcosa, un sorriso, l’aria emozionata, e poi: “Hello, friends”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano