Terrorismo e migrazioni. Lo stato-nazione non è condannato all'inerzia
A leggere i giornali italiani degli ultimi giorni, sembra che, per affrontare crisi e minacce attuali, i paesi del Vecchio continente non abbiano oramai altre opzioni se non maggiore integrazione europea. Sulla Stampa Roberto Toscano scrive infatti che “non si può far fronte con una risposta su base nazionale”. Analogamente, Eugenio Scalfari, su Repubblica, parte dagli attentati di venerdì scorso in Francia e Tunisia per ammonire le classi dirigenti europee: senza una vera federazione, a suo dire, l’Europa rischia di fare la fine di Amleto. Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, è andato addirittura oltre: l’Europa non sarebbe comunque sufficiente, per questo il politologo di Bologna si augura che gli Stati Uniti tornino a proteggere l’Europa, come fecero Wilson e Roosevelt nel secolo passato.
Queste analisi riportano alla mente un dibattito ormai vecchio di venticinque anni relativo al declino della sovranità degli stati e lanciato da autori come Kenichi Ohmae con “The Borderless World”, Susan Strange con “The Retreat of the State”, e già anticipato negli anni 70 da Raymond Vernon con il suo “Sovereignty at Bay”. Il problema delle analisi di questi giorni è che le conclusioni alle quali giungono non sono logicamente coerenti con le premesse. Se a volte è infatti necessario dare risposte internazionali a problemi internazionali – per esempio come nel caso del riscaldamento globale o della stabilità finanziaria mondiale – in altri contesti, dalla crisi greca al terrorismo islamista, ciò non è necessariamente o del tutto vero.
In primo luogo, alcuni problemi internazionali non richiedono burocrazie transnazionali. Spesso, quello che serve è alla fine un paese con risorse e volontà sufficienti. La pirateria fu sconfitta nel 1805 dalla sola marina americana. Più recentemente, la Francia si è fatta quasi interamente carico dell’intervento in Mali – e lo stesso è vero per altre operazioni militari in Africa. Lo stesso si può dire della distruzione da parte di Israele di un impianto nucleare siriano nel 2007, come anche di altre operazioni, da quelle anti terrorismo dell’India in territorio birmano, alla missione a Timor Est guidata dall’Australia. In questi e altri casi, Nato, Onu e Unione europea erano largamente o totalmente assenti, ma ciò non ha impedito a degli stati nazionali di affrontare e risolvere questi problemi. Non c’è ragione per cui i paesi europei più grandi e ricchi – Italia inclusa – non possano fare altrettanto, per esempio relativamente alla crisi in Libia o alla minaccia dello Stato islamico nel Levante. Se manca la volontà politica, come Scalfari lamenta nel suo editoriale, non è certo con maggiore integrazione europea che si può risolvere il problema: non si ottiene infatti un attore motivato sommandone tanti poco motivati.
In secondo luogo, laddove l’azione di un solo paese non sia sufficiente, non è necessariamente detto che ci sia comunque bisogno di più integrazione. Spesso bastano trattati o accordi di cooperazione rafforzata. Un’organizzazione terroristica basata in più paesi è chiaramente più difficile da neutralizzare per un governo nazionale. Ciò però non significa che, come Scalfari suggerisce, serva una federazione di stati per neutralizzarla. Iran e Russia hanno dato un contributo essenziale nella prima fase della guerra al terrorismo all’indomani dell’11 settembre 2001: eppure sono sempre rimasti stati indipendenti. Nei casi in discussione, va però sottolineato che di transnazionale c’è relativamente poco: tanto i responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo che l’attentatore di venerdì a Lione avevano pochi e labili contatti internazionali, perlomeno dal punto di vista materiale. Quindi è tutto da dimostrare che con maggiore integrazione europea questi attacchi sarebbero stati sventati. D’altronde, gli Stati Uniti sono una federazione, eppure vi si osservano ancora, di tanto in tanto, degli atti di violenza e terrorismo interno – come la sparatoria a Charleston della scorsa settimana ci ricorda.
[**Video_box_2**]In terzo luogo, le minacce si valutano in base alle risorse dei nemici. E i nuovi terroristi islamici hanno relativamente poche risorse materiali. Gli eventi di venerdì, così come gli episodi relativi a Charlie Hebdo, nella loro drammaticità, rivelano anche la fragilità di base di questa “nuova” ondata di terrorismo. Questi terroristi sono più difficili da anticipare e catturare attraverso le operazioni di anti terrorismo. Allo stesso tempo, però, ciò rende questa minaccia limitata da un punto di vista della sicurezza. Storicamente, ci sono state minacce esterne di tale portata da aver portato dei paesi a federarsi – almeno in parte, le scelte di Cavour che in quelle di Bismarck così come in quelle di Washington riflettevano questa logica. Il nuovo terrorismo islamico non è, però, certamente una di quelle minacce che richiedono, come invoca Scalfari, la creazione di una federazione europea.
Vi è, infine, la minaccia dello Stato islamico, che è certamente più seria in quanto controlla un territorio. Anche in questo caso, però, non è chiaro come “più Europa” possa essere la soluzione. Basterebbe, in fin dei conti, aumentare la spesa per la Difesa e disporre così delle capacità militari necessarie per agire in coalizione. La Francia non ha praticamente aerei da trasporto tattico e strategico; la Spagna ha una flotta di droni da osservazione talmente limitata da non poter essere chiamata tale; e l’Italia spende il 70 per cento del proprio bilancio militare in pensioni e stipendi. Praticamente nessun paese europeo spende più dell’1,5 per cento del proprio pil in Difesa e spesso preoccupazioni occupazionali, anziché questioni militari, ricevono assoluta priorità nell’allocazione delle risorse.
In definitiva, l’attuale debolezza degli stati europei è il prodotto delle loro legittime scelte. Gli stati europei possono fare poco, perché spendono poco e perché non hanno intenzione di agire. A meno di non concepire l’Europa come una burocrazia che coercitivamente impone delle proprie scelte illuminate ai paesi europei, non è chiaro come “più Europa” possa risolvere questi due problemi.
Andrea Gilli è professore alla Metropolitan University Prague - Mauro Gilli è professore alla Northwestern University
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