Fincantieri e i danni irreparabili delle procure anticapitalistiche
Piccole navi che crescono, come scheletri galleggianti ancorati alla banchina. Così appaiono i manufatti in costruzione presso il sito industriale di Monfalcone. Di là il mare del Golfo di Trieste, di qua il cantiere navale di Fincantieri nel bacino di Panzano. 750 mila metri quadri, 5 mila persone che salgono e scendono tra carriponte e carrelli elevatori. Giorno dopo giorno, un prefabbricato di metallo assume le sembianze di una nave da crociera, con gli interni in legno e le abat-jour sul comò. Il cantiere di Monfalcone è bloccato, fermo, immobile. Ingressi sbarrati, entrano soltanto un centinaio di impiegati amministrativi. E’ la conseguenza del sequestro preventivo disposto dal tribunale di Gorizia per una presunta gestione non autorizzata degli scarti di lavorazione. Dopo “due giorni d’inferno” trascorsi a studiare le carte e a formulare una strategia di reazione, gli alti dirigenti del gioiello della cantieristica italiana tornano lentamente alla normalità.
“Siamo una multinazionale con 23 mila dipendenti nel mondo. Abbiamo impianti in Brasile, Stati Uniti, Vietnam, Norvegia, Romania… Non possiamo occuparci soltanto delle intemerate della procura di Gorizia”, è il commento a bruciapelo di un manager di primissimo piano che, proprio per il ruolo che ricopre in questi giorni di trattativa (con governo, sindacati, toghe), sceglie l’anonimato. “Si può bloccare un’azienda con un sequestro preventivo respinto per due volte e alla fine accolto dalla Cassazione per un mero vizio di forma?”, è la domanda che tutti si pongono. Dopo la prima ispezione del maggio 2013, sia il gip che il tribunale di Gorizia respingono la richiesta di sequestro da parte della procura. Mancano i presupposti, sentenziano i giudici. Poi arriva il colpo di scena: la Cassazione accoglie il ricorso del pm e annulla la sentenza favorevole a Fincantieri per una questione di forma. Per l’esattezza, la Suprema Corte evidenzia “vizi motivazionali” non meglio esplicitati. Tanto basta per apporre i sigilli. A tenere banco è la questione ‘monnezza’. Per la procura le aziende appaltatrici di Fincantieri (500 a Monfalcone, 3.700 dipendenti) dovrebbero essere soggette a un’autorizzazione per la gestione dei rifiuti. Fincantieri invece, secondo uno schema consolidato, preferisce assumersi in proprio e in via esclusiva la responsabilità di tutti i rifiuti generati nel proprio stabilimento.
[**Video_box_2**]“La procura non ci contesta una gestione irregolare dei rifiuti o la diffusione di materiali tossici, ma il fatto che vogliamo occuparcene noi, come se questo non rientrasse nella nostra sacrosanta li-ber-tà d’im-pre-sa”, scandisce l’interlocutore per farsi capire meglio. In effetti, i rifiuti di cui si parla non sono pericolosi, e nessuno insinua il contrario. Quel che ai pm non va giù è che Fincantieri gestisca in proprio le attività connesse alla raccolta dei residui di lavorazione, alla selezione in appositi depositi temporanei fino allo smaltimento degli stessi. “I concorrenti francesi e tedeschi si comportano come noi. La gestione di queste operazioni assicura la fluidità del ciclo produttivo. E poi Fincantieri sopporta costi più bassi di quelli che dovrebbe accollarsi una ditta appaltatrice”. Sarebbe “diseconomico” scindere le responsabilità. A noi profani viene da chiedersi perché un’azienda ancillare dovrebbe dare più garanzie in termini di sicurezza e tutela ambientale. Piuttosto una società che non scarica su terzi oneri e responsabilità appare più diligente. A proposito della “manina anti impresa” evocata da Squinzi, l’altissimo dirigente rincara: “La magistratura ha una venatura anticapitalistica e iperecologista. Se tra qualche anno scopriamo che le accuse all’Ilva sono gonfiate o che Fincantieri è innocente, chi ripagherà lavoratori e contribuenti?”. Al di là dei vetri lo sguardo corre alle banchine deserte di un cantiere addormentato. Carnival, Princess e Msc hanno firmato contratti per 3 miliardi di euro. La prima scadenza è aprile 2016, la nave Carnival dovrà essere varata per quella data. Poiché gli armatori iniziano a vendere le crociere con un anno d’anticipo, il ritardo di un sol giorno comporta penali astronomiche. Un mese costa decine di milioni di euro. “Una consegna in ritardo significa che non sei più un fornitore affidabile. E’ un costo non monetizzabile. E’ semplicemente il disastro”.
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