Così i giudici hanno sderenato l'Ilva
Roma. In un’assolata giornata di fine ottobre un gelataio del centro di Taranto si chiedeva se avessero di nuovo tagliato gli stipendi ai dipendenti dell’Ilva visto lo scarso flusso di clienti. Pochi mesi prima un meccanico di Grottaminarda, paese dell’Irpinia al chilometro 254 sull’Autostrada Napoli-Taranto, s’interrogava sulle sorti dello stabilimento siderurgico più grande e più disgraziato d’Europa dal quale dipende il 7-8 per cento del pil pugliese e l’1 per cento di quello nazionale. “Oh, da quando là c’è ’sto casino da qui non passa più nessuno”, ha detto. Il casino in questione è cominciato venerdì 26 luglio 2012 quando l’autorità giudiziaria di Taranto ha ordinato di sequestrare senza facoltà d’uso parte dell’area a caldo, che sforna la ghisa da trasformare in laminati e tubi, e una quantità di prodotti finiti rimasti a deteriorarsi (360 milioni di euro persi). E’ l’inizio di un effetto domino.
Da quell’intervento cautelare in fase d’indagine per contestati reati ambientali – domani saranno passati tre anni esatti e il processo inizierà a ottobre con 44 imputati rinviati a giudizio – la magistratura ha sempre preteso di avere l’ultima parola sul potere esecutivo che via via ha cercato di tamponare gli effetti dei provvedimenti giudiziari con decreti legge. L’ultimo, l’ottavo decreto per l’Ilva, è stato disapplicato dalla procura di Taranto perché avrebbe determinato la riapertura del penultimo altoforno rimasto attivo, in precedenza sequestrato senza facoltà d’uso dopo un incidente mortale. I costi dell’accanita contesa tra poteri dello stato sono miliardari e incalcolabili. Non esistono dati ufficiali, proviamo a darne un’idea.
La produzione è ai minimi storici per qualità e quantità. All’indomani del primo sequestro i clienti americani hanno cancellato ordini per 90 milioni di euro. Nell’ambito del provvedimento “buy american”, l’Amministrazione Obama sta introducendo nuovi dazi all’ingresso in settori di consumo che toccano l’acciaio di Taranto. Nel frattempo l’azienda ha perso clienti storici come Fca Automobile, che ha aumentato la produzione d’auto nella confinante Basilicata, e Fincantieri, leader della cantieristica navale. Da fine aprile funzionano due altiforni su quattro – il piccolo Afo1 dovrebbe ripartire ad agosto, il grande Afo5 dev’essere rifatto, ammesso ci siano risorse. La produzione, già debole, è ridotta del 60 per cento circa rispetto ai livelli massimi raggiunti nell’ultima fase della gestione dei Riva, estromessi dalla proprietà con il commissariamento governativo del 2013. Emilio Riva aveva lasciato l’azienda in attivo, paragonava l’Ilva a una Ferrari: “Per guadagnare deve andare a tavoletta”, ovvero 8 milioni di tonnellate annue, il picco storico.
Il patrimonio netto ai tempi del primo sequestro era di 2,4 miliardi di euro, ora è azzerato e la cassa langue. “La situazione ha avuto una forte flessione. Deve produrre e servono più commesse: in virtù degli ordini che riceve può avere un’anticipazione sulle fatture dalle banche. Solo producendo si genera cassa”, dice Federico Pirro del Centro studi Confindustria Puglia. I debiti lasciati sulla schiena di banche e aziende fornitrici – logistica, manutenzione, servizi portuali ecc. – con l’amministrazione straordinaria, sopraggiunta a inizio anno, arrivano a 1,3 miliardi di euro. Un centinaio di aziende pugliesi dell’indotto, quintessenziali all’Ilva, vantano crediti non riscossi per 200 milioni; prevedono altri problemi quando depositeranno i bilanci 2014 e le banche abbasseranno il loro merito di credito.
[**Video_box_2**]La produzione siderurgica italiana ha avuto una forte flessione a partire dall’estate 2012 (l’Italia è sempre nona nel ranking globale ma è superata rapidamente). Le aziende trasformatrici d’acciaio al nord non godono più dei prezzi favorevoli dell’Ilva dei Riva e hanno aumentato le importazioni con un rincaro rispetto mercato interno di 40 euro la tonnellata e devono aspettare cinque mesi per ricevere gli ordini. I concorrenti tedeschi, coreani, cinesi, gongolano.
L’incertezza del diritto è poi un costo in termini reputazionali: per questo si sono eclissati dei potenziali investitori come ArcelorMittal, chiamata dal governo di Matteo Renzi che poi però ha tentato la strada dell’intervento pubblico; temporaneo almeno nelle intenzioni. I colossi Posco, Nippon, Baosteel, sondati da altri soggetti, si sono ritratti. Quanto a Taranto basta richiamare il “paradigma del gelataio” per capire quant’è sottile il filo che lega l’acciaio, il pane, e una città che per anni è stata dipendente dall’industria pubblica e ora è prostrata da un corrosivo conflitto istituzionale.
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