Ma come si fa a guadagnare ancora vendendo hamburger in America? Shake Shack ci riesce
I conti di McDonald’s vanno così male che a marzo l’azienda ha smesso di pubblicare i ricavi mensili. Martedì ha annunciato la chiusura di 184 punti vendita, molti di più di quelli che aprirà nelle stesso periodo, una flessione del business che non si vedeva da quarant’anni. Questo senza contare le enormi magagne irrisolte sul salario minimo, con i dipendenti che ormai da anni sono in agitazione permanente per chiedere un adeguamento degli stipendi che l’azienda non vuole concedere, perché metterebbe in crisi il suo modello fatto di margini bassi e volumi enormi.
Il mitico brand paga la disastrosa scelta strategica di espandersi fuori dal feudo del panino, inserendo nel menù i generi più svariati, dalle insalate ai sandwich, al pollo, fino a yogurt e caffè. All’inizio dell’anno il ceo Don Thompson è stato cacciato dopo soli tre anni, ed è stato abbastanza goffo il tentativo di presentare la manovra come una scelta di natura personale. La guerra dell’hamburger è spietata e trascina in basso anche le corazzate che sembrano invincibili, ma il crollo di McDonald’s e del suo modello ha una nemesi, e il suo nome è Shake Shack.
L’azienda di New York ha dimensioni imparagonabili a quelli dei grandi rivali, ma dalle parti di McDonald’s se li sognano i margini di crescita presentati nell’ultima trimestrale. Il fatturato è cresciuto del 74 per cento, le vendite del 77 per cento e il margine operativo del 110 per cento. Il segreto del successo della compagnia, nata da un carretto che vendeva panini al Madison Square Garden, è un uovo di colombo: fare buoni hamburger. Senza troppi svolazzi e senza pretese di occupare chissà quali fette di mercato fuori dal core business. Giusto il milkshake, uno dei migliori in circolazione, è fuori dal canone essenziale dell’hamburger. Nel tempo Shake Shack ha preso contromisure per migliorare il suo punto debole, le patatine fritte, e ha inserito birra e vino nel menù, decisione che ha funzionato a meraviglia. Quindici anni dopo aver aperto il carretto di strada a New York, la catena è diventata il benchmark positivo di un settore che sta si sta evolvendo rapidamente, e ora ha più di 70 punti vendita fra Stati Uniti ed Europa. Si mangiano hamburger di Shake Shack anche a Beirut e Kuwait City. Randy Garutti, che ai tempi gestiva il suddetto carretto e ora è l’amministratore delegato di un’azienda quotata a Wall Street, gongola osservando come sono stati capaci di “capitalizzare il vento che soffiava nello nostre vele” e sbatte in faccia a McDonald’s e agli altri giganti in crisi i generosi aumenti di salario che offre ai dipendenti.
[**Video_box_2**]Un problema però c’è, e ha a che fare con la quotazione del titolo. Nonostante la trimestrale pazzesca, le azioni hanno perso il 15 per cento del valore in pochi giorni. La flessione non ha a che fare con le performance, ma con la sovraeccitazione che si è scatenata fra gli investitori a gennaio, quando il titolo è planato in borsa con un prezzo target di 21 dollari. Il giorno dopo ha fatto l’esordio a 47 dollari e quattro mesi più tardi ha sfiorato quota 100. Un ritorno su livelli più umani ci sta. Ma la fregola, per quanto eccessiva, è il segno che Shake Shack non ha conquistato soltanto fette di mercato, ma anche l’immaginazione di tutti quelli che hanno a cuore il destino dell’hamburger.
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