Sulla riva di un mare-mostro
Tutta colpa di un gatto. Proprio così: una sera d’estate del 2014, appena arrivata nel porto di Pozzallo per un reportage del Foglio – nel mezzo del tifone dell’emergenza umanitaria – scorgo la sagoma di un uomo vestito di bianco. Avvolto nella sua tuta sanitaria, mascherina sul volto, lo vedo scendere da una nave e portare in salvo, in una cesta, un gatto. La scena è talmente buffa che mi viene da ridere e mi chiedo, colpevolmente, se possa essere anche questa la banalità del male: vedere il lato umoristico di una tragedia. O forse no, forse concentrare l’attenzione su piccoli dettagli serve per isolarsi dal contesto e smettere per qualche minuto di cercare di capire che cosa si celi dietro l’esodo di migliaia di profughi, che ogni giorno si riversano nei porti della Sicilia orientale. Anche perché è quasi impossibile capirlo. Serve a poco leggere e rileggere i resoconti del viaggio drammatico, a volte durato anche anni, di migranti partiti dai loro villaggi in Sudan, in Siria, in Eritrea, in Somalia, da luoghi così remoti che non sono neanche segnalati sulle carte geografiche, rimasti imprigionati per mesi, spesso trattati come bestie dai trafficanti, nei magazzini vicino alle coste libiche, in attesa di tentare la sorte e sperare di raggiungere l’Europa. Nelle loro testimonianze manca sempre qualcosa per ricomporre il puzzle.
Perfino i siriani, che scappano da una guerra civile, restano per me un enigma: ognuno di loro racconta solo una parte della verità, forse proprio quella che vogliamo sentire. Scendono dalle navi con bagagli enormi, migliaia di dollari nascosti nelle cuciture dei vestiti. Si portano dietro gioielli di famiglia, oggetti ricordo di una vita agiata, perduta, e perfino, oggi, un gatto: è di una donna siriana, si è rifiutata di abbandonarlo fra le macerie di un paese dilaniato. Il suo simpatico muso finirà sulle edizioni online di molti quotidiani. Una nota di colore per allentare la stretta emotiva, per dimenticare che stiamo assistendo a quella che Papa Francesco, con il suo linguaggio semplice, ha definito “la terza guerra mondiale, ma a pezzi”.
Mentre osservo il gatto – e mi pongo domande idiote su come sarà stato il suo viaggio su un gommone – capisco di avere disperatamente bisogno di un interprete di questo esodo, una guida che mi aiuti a decifrare quello che (non) vedo. Non mi basta più sapere cos’è successo durante l’ennesima traversata su una carretta fatiscente, né conoscere il nome dello scafista di turno arrestato. Non ne posso più delle immagini strazianti che si ripetono ogni giorno: i migranti, corpi stremati, sguardi smarriti, scendono dalle navi scalzi e si mettono in fila per ricevere dalle mani tese dei volontari delle scarpe da ginnastica. Poi camminano sul molo in fila indiana, seguiti dallo sguardo dei poliziotti, fino ai tendoni allestiti per la loro assistenza, dove ricevono una targhetta colorata con un numero che servirà a distinguerli in seguito, durante le deposizioni – sempre se accetteranno di testimoniare, permettendo agli investigatori di provare a individuare gli scafisti e risalire la filiera di una delle tante organizzazioni criminali che lucrano sui morti e sui superstiti, arrivati nei porti siciliani. Alcuni sbarcano dalle navi con una smorfia che assomiglia alla gioia, altri con l’espressione incerta di chi non sa se l’odissea è finita o solo appena cominciata. Tutti gli altri hanno espressioni imperturbabili, che con il tempo forse imparerò a decifrare; ma per ora a me – che sono ancora una neofita in questa trincea mobile fatta di porti e di barconi – i salvati paiono tutti uguali: sagome, ombre, immagini sfocate che non riesco a cogliere appieno.
Le mie domande ricevono risposte vaghe: chi lavora nei porti non ha tempo di fermarsi a parlare. I poliziotti devono gestire i cadaveri, smistare gli sbarcati, dividere i buoni dai cattivi, gli scafisti dai profughi, e poi i profughi dai migranti clandestini, da rimpatriare (quando lo fanno, se lo fanno) con i voli charter del Viminale. Hanno sempre fretta, costretti come sono a indagini lampo per dimostrare di essere efficienti e far fare bella figura al governo, che deve rispondere alle pressioni politiche e tranquillizzare l’opinione pubblica, sempre più allarmata. Poliziotti, carabinieri, volontari, ufficiali della Guardia di finanza, della Guardia costiera e della Marina militare continuano a lavorare senza sosta nella catena di montaggio organizzata per accogliere quelli che arrivano, senza avere il tempo, né forse il desiderio, di capire quali siano le storie che si portano dietro.
Salgo in macchina, indifferente al caldo, all’umidità e perfino ai colori di questa terra, alle sfumature di quel mare che ha affascinato poeti, scrittori e viaggiatori, ma che ora si è trasformato per tutti in una cosa sola: Mare Monstrum, un cimitero sommerso. Ripenso alla parole di un amico tunisino, che il giorno prima mi aveva detto: “Cristina, vai a Siracusa: cerca il commissario Carlo Parini, coordinatore del GICIC, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina. Ma prima vai al ristorante di Aziz, a Ortigia: mangia un kebab da lui (i suoi kebab sono deliziosi) e preparati a molte sorprese. Sono loro le persone di cui hai bisogno. Ti aiuteranno a capire meglio, spiegandoti come si combatte il traffico degli esseri umani con poche risorse e molta fantasia”.
All’inizio non è facile. “Aziz? Sta per arrivare”, mi dicono al ristorante, lui però non arriva mai. Comincio a temere di essere stata presa in giro. Dopo qualche giro di kebab e falafel, alla fine desisto. Provo allora a chiamare il commissario Carlo Parini, ma il suo cellulare suona a vuoto. Quando ormai sto per rassegnarmi, sento la sua voce:
“Pronto?”.
“Buongiorno, commissario Parini? Sono una giornalista e vorrei…”.
“Buongiorno a lei, può attendere un attimo in linea?” mi dice, pacato e cordiale.
Sento il trillo di un altro cellulare. Il commissario risponde e chiede: «Quanti sono oggi? Cinquecento? Ora arrivo”. Poi ritorna da me: “Disponibilissimo, venga a trovarmi quando vuole… Scusi, può aspettare ancora in linea?”. Squilla di nuovo un telefono e lo sento commentare: “Sì, alcuni hanno parlato, ma non sono convinto della loro ricostruzione dei fatti. Chiama Aziz. Ah… be’, se non c’è chiama Aldo…”. Dopo qualche minuto di attesa, il commissario Parini ritorna di nuovo sulla mia linea: “Mi scusi, non dormo da due giorni e ora sono all’obitorio di Lentini. Avrà saputo che ci sono stati altri morti, purtroppo. Domani mattina ci sarà un altro sbarco. Se mi raggiunge al porto commerciale di Augusta può farmi lì le domande che vuole. A proposito… lei vive a Milano, vero? In che via?”. Glielo dico. “A che numero?”. Rispondo spazientita, poi provo di nuovo a spiegarmi: “Commissario, io sono qui per…”, ma lui mi interrompe ancora. “L’avete sistemato poi il portone del palazzo?”. “Il… portone?”. Sto parlando con un pazzo, ovvio. “Sì, un portone di legno antico e ottone. Casa della vecchia Milano, pavimento in acciottolato, piccolo giardino con i glicini all’interno. Ricordo che il portone aveva un difetto e rimaneva sempre aperto. O almeno, all’epoca, era così”. Resto senza parole. “Sa, quando sono stato a Milano ad arrestare il basista di un’organizzazione egiziana”, e mi snocciola data e ora dell’arresto, avvenuto diversi anni prima, “eravamo vicino a dove vive lei, per cui ho studiato un po’ tutte le case della zona, nell’attesa. Ho una specie di mania per l’architettura. In ogni caso: l’aspetto domani al porto. Arrivederci”.
Ancora non lo so, ma lui farà sempre così. Per arrivare al punto prima parlerà di architettura, mi racconterà la storia di Jacopo da Lentini, accennerà al documentario visto la sera prima su Marco Polo, o al video di una canzone su YouTube, se di buon umore mi reciterà pure qualche verso e poi, quando capirà che sono giunta al limite massimo di sopportazione, se ne uscirà con il suo: “In che cosa posso esserti utile, giornalista?”. E solo allora comincerà a raccontare, scattando in avanti manco fosse un centravanti con la palla ai piedi, all’inseguimento di nessi logici per me spesso incomprensibili, che poi a fatica riuscirò a trasformare in un racconto coerente, pieno di particolari e di aneddoti, di storie che sono tragedie, e che lui riuscirà però a trasformare quasi sempre in commedie. Ma tutto questo lo scoprirò fra molti mesi. Per ora so solo che devo incontrare un poliziotto, e spero possa essere lui la mia guida.
La mattina successiva, al porto di Augusta, mi fermo un attimo prima di entrare. Non sono impaziente di vedere una nuova fila di umanità dolente, prima voglio almeno godermi il paesaggio: a sinistra la campagna, a destra le ex saline. E in fondo alla discesa, dove si trova il porto, un mare incantevole. Calmo, piatto, rassicurante. Sembra di stare dentro una cartolina, e invece è lo scenario di Mare Monstrum. Parcheggio la macchina all’ingresso e chiedo del commissario Parini. “Guardi, non può sbagliarsi: è quello più alto e grosso, che non sta fermo un attimo e non si trova mai”, scherza un poliziotto, lasciandomi passare. E infatti mi ci vuole un po’ per scovarlo, perché si trova a bordo di un mercantile, a organizzare lo sbarco sul molo. Dopo mezz’ora di attesa finalmente lo individuo: alto, robusto, occhi grigi, tratti somatici che tradiscono un’origine nordica, forse normanna, o magari è il discendente di qualche garibaldino arrivato qui per fare l’Italia, chissà. Mascherina sul volto, dalla banchina osserva i migranti che stanno scendendo dalla nave.
Appena mi vede, in mezzo ad altri giornalisti, si avvicina per dirmi, senza preamboli: “Stasera non arrestiamo nessuno. Sono solo dei disgraziati, avranno guidato il barcone per pagarsi il viaggio. Io voglio mettere in galera i delinquenti, non i disgraziati”. Comincia a elencare numeri: “Oggi ci sono 150 eritrei, 20 siriani, 5 palestinesi, ma di sicuro i palestinesi sono tunisini o egiziani che sperano di cavarsela facendo finta di essere profughi. Qui facciamo i conti a mano. Con i potenti mezzi che abbiamo, se non ci aiuta la memoria siamo fottuti”. Scoprirò che ha una strana passione per i numeri, che io invece odio perché mi ricordano la mia professoressa di matematica del liceo. Mi farà impazzire, con i suoi benedetti numeri, dividendoli, moltiplicandoli, collegandoli a eventi, date, facce, arresti… Per ora, comunque, mi pare solo un poliziotto intraprendente, che smonta i miei stereotipi sulla flemma dei siciliani e mi trasmette un’immediata simpatia. “Che cosa vuole vedere?”, mi domanda.
“Io volevo chiederle se può aiutarmi a…”, inizio, ma lui mi interrompe. “Ho capito, ho capito: vuole conoscere la mia squadra. Mi pare giusto, sono ragazzi fantastici. Mi piace pensare di essere solo un bravo allenatore. Facciamo così: lei mi segue, vede come lavoriamo, se vuole può anche assistere agli interrogatori, e poi capirà tutto. Oppure si confonderà, ma non è poi così male essere confusi, ogni tanto. Mai avere troppe certezze nella vita”.
L’istinto mi dice che ho trovato ciò che andavo cercando, ma non voglio illudermi. Magari vuol fare solo un po’ di scena per la giornalista milanese, per poi rifilarmi, come hanno fatto i suoi colleghi, informazioni generiche, così da proteggere la riservatezza delle indagini.
Entro nell’ufficio spoglio della capitaneria di porto. Seduti davanti a tre computer ci sono alcuni uomini della sua squadra, e intanto vedo passare carabinieri, poliziotti, ufficiali della Guardia di finanza e della Guardia costiera, interpreti arabi e pakistani, tutto un andirivieni tra questo e un altro ufficio, contiguo, dove si trovano i migranti che hanno deciso di testimoniare, raccontando il loro viaggio in mare.
“Commissario, per me è il numero 19”, dice a mezza voce un interprete magro, dinoccolato, esile come una foglia secca. “Lui si chiama Aldo”, spiega il commissario, “Giovanni ora lavora da un’altra parte e Giacomo… be’, Giacomo lo conoscerà presto: è un fenomeno!”. “Aldo… Giovanni… e Giacomo?”, chiedo. “Oh, sì”, sorride sornione il commissario, “e le assicuro che il nostro trio è ben più divertente”. Aldo è egiziano. Consegna al commissario un foglio su cui ha annotato la deposizione di un testimone. “Sì, Aldo, so già cos’hai scritto, ho riconosciuto il nome. Quella è una famiglia di trafficanti. Non ti ricordi che nel 2010… va be’, dài, non importa, ci penso io”. Aldo sorride, mi guarda e chiede: “Quanti mesi rimane qui? Ci vuole del tempo per abituarsi al ritmo del commissario…”. Mi gira già la testa, e penso quasi con sollievo all’aereo che mi aspetta il giorno dopo.
Arriva un carabiniere, trafelato: “Lo abbiamo preso mentre stava scappando. Aveva in tasca le carte nautiche di tutti i porti siciliani. Ora piange, che facciamo?”. “E che cosa vuoi fare? Aspettiamo che gli passi, poi lo interroghiamo”. Parini mi guarda, capisce il mio stato d’animo e decide di offrirmi l’antipasto: l commissario sorride: “Piange perché sa che è fottuto. Sicuramente è il suo primo viaggio, il suo battesimo. Speriamo sia anche l’ultimo. Prima lo interroghiamo: se lui aiuta noi, noi aiutiamo lui. Siamo sbirri, ma non siamo cattivi”.
Torniamo nell’ufficio della capitaneria di porto, ci sediamo, aspettiamo. Li guardo e penso: loro stanno qui, giorno e notte, sbarco dopo sbarco, anno dopo anno, a combattere una guerra già persa in partenza con i trafficanti. Mi annoto sul taccuino una domanda da fare al commissario: “Ne vale la pena?”. Mi ci vorrà qualche mese per capire che la domanda è mal posta, se non semplicemente stupida. Ma, per capirlo, dovrò prima entrare nel suo ufficio, dove sono accatastati quasi dieci anni di indagini, di storie, di immagini, di effetti personali di migliaia di migranti sbarcati nella provincia di Siracusa. Un archivio di tragedie, di vittorie e di fallimenti. Ora però sono ancora qui, alla capitaneria di porto, e non c’è neanche un ventilatore.
Dopo un’attesa piuttosto lunga arriva il verbale dell’interrogatorio fatto al giovane scafista. Il commissario legge, socchiude gli occhi e dice: “Interessante”. Interessante significa che quel ragazzo, quello per cui avevo provato tanta pena, appartiene a una nota famiglia dell’aristocrazia dei trafficanti di esseri umani. Il commissario cerca la sua data di nascita e commenta: “Peccato. Ha compiuto diciott’anni un mese fa. Se non parla, dovrà andare in carcere. E poi verrà rimpatriato, dove ricomincerà da capo. Se fosse arrivato un mese prima di diventare maggiorenne, forse avremmo potuto cercare di salvarlo”. Ormai è chiaro che non ho di fronte uno sbirro qualunque.
[**Video_box_2**]Esco a fumare una sigaretta e osservo i mercantili, da cui sta scendendo un altro gruppo di migranti. Scorgo un uomo con la mascherina sul volto e in testa un cappello della Marina militare con la visiera. Si muove veloce, come il commissario, nonostante l’afa e il sole a picco. “Carlo, sono stanchi, troppo arrivati, non ce la fanno a parlare”. Dovrei segnarmi questo aggettivo, arrivato, perché fra qualche mese lo sentirò spesso rivolgere a me, quando non ce la farò più a star dietro alle loro storie, a sopportare il peso dei loro ricordi: “Sei arrivata, giornalista, fermiamoci qua”.
Il commissario fa le presentazioni: “Lui è il nostro Giacomo, come le dicevo, cioè Aziz. Senza di lui… Non so cosa avrei fatto, senza di lui”. Aziz viene da Marrakech. Non troppo alto, ha la pelle scura e gli occhi neri. Sembra l’esatto contrario del commissario Parini. E non solo per i tratti somatici, anche se lo scoprirò solo fra qualche tempo. Per ora mi paiono solo due tizi assai singolari. “Carlo, il ragazzo guidava il gommone, ma ha fatto dei miracoli per portarli tutti in salvo. Loro lo considerano un eroe, non testimonieranno mai contro di lui. Cosa facciamo?”, chiede Aziz. “Lasciamo in pace l’eroe, per ora, e prendiamoci una pausa”, propone il commissario. «Giornalista, ma lei non ha mai fame? Qui vicino c’è un fiordo dove hanno girato una puntata di Montalbano. Sembra di stare in Norvegia. Se vuole glielo faccio vedere, così le viene un bell’articolo”, mi dice, sorridendo.
E così mi ritrovo a Brucoli, sul fiordo dove hanno girato proprio l’episodio del Commissario Montalbano che racconta di uno sbarco di clandestini. “In Sicilia la fantasia non supera mai la realtà”, mi dice Parini, sporgendosi a guardare il mare. “Qui ogni dimensione è fantastica, non si può vivere senza immaginazione. Lo diceva anche Sciascia. Spero sia stata una gita interessante, per lei. Torni pure da noi quando vuole, comunque, tanto staremo al porto per molto tempo. Oramai viviamo qui”. Scuote la testa, rassegnato, e si avvia verso la macchina.
Ha ragione lui. Io tornerò, eccome se tornerò. Perché ne sono certa: ho trovato quello che cercavo. Quindi, una mattina d’inverno, sarò di nuovo qui, stesso porto, stesso molo, per arruolarmi volontariamente nel GICIC. Per colpa (o merito) di un gatto.
Pubblichiamo il primo capitolo (“Tutta colpa di un gatto siriano”) del libro di Cristina Giudici “Mare Monstrum, Mare Nostrum - Migranti, scafisti, trafficanti. Cronache dalla lotta all’immigrazione clandestina”, in libreria per i tipi di Utet (160 pp., 14 euro)
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