“La libertà di immigrare non esiste”
Roma. Il ministro dell’Interno inglese, Theresa May, ha detto di voler tornare alla “libertà di movimento” come originariamente intesa dal progetto della costruzione europea, prima cioè di una sequela di correzioni giurisprudenziali. “Libertà di muoversi per lavorare, non libertà di attraversare i confini per cercare un lavoro o per accedere a benefici welfaristici”, ha scritto sul Sunday Times. Sollevando un polverone di polemiche più o meno appropriate anche in Italia, visto che il Regno Unito è già fuori dagli accordi di Schengen, e già accoglie più del doppio di immigrati di quanto non faccia il nostro paese pure quando investito da flussi straordinari. A non scandalizzarsi di certo per la posizione della May sarebbe probabilmente Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco, addottorato in Germania con Jürgen Habermas, poi trasferitosi nel 1986 in America e folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard (1926-1995). Cosa c’entri uno dei principali pensatori anarco-capitalisti viventi con le restrizioni ai flussi migratori tornerà a spiegarlo lo stesso Hoppe tra una decina di giorni, durante il seminario annuale della sua Property and Freedom Society che si terrà in Turchia, paese dove lo studioso oggi vive. D’altronde le sue tesi, in America, già animano da anni un dibattito accademico e politico sull’immigrazione che non ha eguali in Europa. E’ il dibattito sugli “open borders”, come lo abbiamo descritto su queste colonne, con al centro la tesi – sostenuta da svariati economisti libertari e liberisti – per cui gli stati dovrebbero sbarazzarsi delle frontiere. In questo modo si avvantaggerebbero al meglio dello spostamento di milioni di persone in fuga da guerra o povertà, e incentiverebbero pure un effetto propulsivo della crescita mondiale. Perché il pil del pianeta ne uscirebbe raddoppiato nel giro di due decenni, prevedono questi studiosi ragionando sull’aumento dei consumi e della forza lavoro, sulla crescita esponenziale di libertà di spostamento e d’innovazione. Esercitare l’immaginazione su un’ipotesi radicale, come appunto è l’abbattimento delle frontiere, non è inutile. Il confronto, che in America si muove spesso sulla base di statistiche accurate e previsioni econometriche, attira anche studiosi mainstream come il decano di economia dell’immigrazione di Harvard George Borjas, intervenuto sull’ultimo numero del Journal of Economic Literature per criticare i fautori dei “confini liberi”. Un dibattito, insomma, che spinge almeno gli analisti a uscire da certi schemi un po’ moralistici che immobilizzano la ragione.
Come collocare, in questo contesto, le posizioni restrittive di Hans-Hermann Hoppe? E’ necessario partire dalla sua opera principale, “Democracy: The God that Failed”, meritoriamente tradotta in Italia da Alberto Mingardi (direttore dell’Istituto Bruno Leoni) e pubblicata nel 2005 da Liberilibri. Interventi successivi e recenti dello stesso Hoppe hanno continuato a rimandare al nocciolo duro della sua analisi, secondo cui staremmo attraversando una fase di “decivilizzazione”. Caratterizzata da “consumo dei capitali, previdenza e orizzonte di pianificazione sempre più ristretti e un progressivo brutalizzarsi della vita sociale”. Lo studioso, fautore in via di principio dello smantellamento totale dello stato, individua nel regime monarchico – con “lo Stato posseduto a titolo privato” – l’opzione second best. Nel regime monarchico, infatti, “la struttura d’incentivi cui il sovrano è soggetto è tale che è suo interesse comportarsi in modo relativamente previdente e adottare solo politiche fiscali e militari moderate”. Ma lo Stato monarchico è stato rottamato dallo spirito democratico-repubblicano, palesatosi assieme alla Rivoluzione francese e al suo esportatore Napoleone. Alla fine comunque è la Prima guerra mondiale, secondo Hoppe, “il momento in cui la proprietà privata dello Stato venne completamente sostituita dalla proprietà pubblica dello Stato, e da cui è sgorgata una tendenza verso crescenti gradi di preferenza temporale collettiva, crescita del governo e un relativo processo di decivilizzazione”. Il governante democratico non è incentivato a dedicarsi alla conservazione e all’accrescimento del capitale di un paese, piuttosto fa di tutto per difendersi dalla concorrenza di chi vuole gestire le leve del potere al suo posto. Da qui l’enfasi dei governi democratici sulla redistribuzione della ricchezza (privata) e il sopravvento del diritto pubblico (su quello privato). La democrazia, secondo Hoppe, diventa una gara dei governanti per assegnare o promettere privilegi a dei gruppi, “la redistribuzione avrà di norma effetti egualitari e non elitisti”, ergo “la struttura della società verrà progressivamente deformata”. Come opporsi a tale deriva? Delegittimando agli occhi dell’opinione pubblica la democrazia, ricordando che perfino la monarchia è più funzionale, e fomentando la secessione di piccoli stati. E se il Dio della democrazia ha fallito, sostiene Hoppe, in particolare le politiche migratorie sono lì a dimostrarlo. Vediamo perché.
“Le cose cambiano in maniera radicale e il processo di civilizzazione deraglia permanentemente quando le violazioni dei diritti di proprietà prendono la forma dell’interferenza governativa”, scrive Hoppe. “La tassazione, il prelievo di ricchezza da parte dello stato e le regolamentazioni imposte da esso – a differenza della sua controparte criminale – sono considerate legittime, e alla vittima dell’interferenza da parte dello stato, a differenza della vittima di un crimine, non viene riconosciuto il diritto a difendersi fisicamente e a proteggere la sua proprietà”. Secondo Hoppe questa china ha inizio nel 1918.
Hoppe si dice convinto dell’“argomentazione classica” a favore della “libera immigrazione”: “A parità di condizioni, le attività commerciali e industriali tendono a trasferirsi dove i salari sono bassi, mentre la forza lavoro tende a trasferirsi dove i salari sono più elevati. In tal modo si produce una tendenza all’uniformazione dei salari (a parità di tipo di lavoro) e alla allocazione ottimale del capitale. (…) Si aggiunga che tradizionalmente i sindacati – e oggi anche gli ambientalisti – si oppongono alla libera immigrazione: già di per sé questo fattore dovrebbe rappresentare un buon argomento a favore di una politica di libera immigrazione”. Almeno tre sono però le obiezioni che fanno ricredere Hoppe che perciò prende le distanze dagli analisti pro “open borders”.
Innanzitutto il concetto di “ricchezza” e “benessere” è soggettivo, ergo un aumento del pil globale non può diventare l’argomento passepartout per liberalizzare i flussi di persone: “Giacché qualcuno potrebbe preferire avere un tenore di vita più basso in cambio di una maggiore distanza tra sé e il prossimo, piuttosto che godere di un livello di vita più elevato al prezzo di una maggiore prossimità agli altri”.
La seconda obiezione risponde a quanti notano una naturale sintonia tra il sostenere la libertà degli scambi economici e la libertà totale degli spostamenti di persone. Risponde Hoppe: “Non vi è nessuna analogia tra libero scambio e libera immigrazione, e restrizioni al commercio e all’immigrazione. I fenomeni del commercio e dell’immigrazione sono diversi sotto un profilo fondamentale, e i sostantivi ‘libertà’ e ‘restrizione’ declinati con ciascuno dei due termini assumono significati radicalmente diversi: gli individui possono spostarsi e migrare, i beni e i servizi no”. In altre parole, “mentre un soggetto può migrare da un luogo all’altro senza che nessun altro lo voglia, merci e servizi non possono essere inviati da una parte all’altra senza che chi spedisce e chi riceve siano d’accordo”.
[**Video_box_2**]Si arriva così alla terza obiezione, quella più radicale. Riguarda la “proprietà” dei territori su cui le migrazioni hanno luogo. In una società “anarco-capitalista”, come la vorrebbe Hoppe, “tutta la terra è di proprietà di individui privati, comprese tutte le strade, i fiumi, gli aeroporti, i porti e via dicendo”. In tale situazione “non vi è distinzione netta tra ‘locali’ (ossia cittadini del posto) e stranieri”; l’immigrazione è possibile solo quando c’è il consenso dei legittimi proprietari della terra. In presenza di un simile ordinamento sociale, “non esiste libertà d’immigrazione o un diritto di ingresso in capo all’immigrante”. Le politiche migratorie cambiano “quando il governo è di proprietà pubblica”. Se il governante democratico assomiglia a un “curatore temporaneo” che vuole massimizzare “denaro e potere”, “in accordo con l’egualitarismo intrinseco della democrazia, dovuto al fatto che ogni individuo dispone del voto, il governante tenderà a perseguire politiche migratorie di chiaro stampo egualitario, ossia non discriminatorie”. Quando si tratta di immigrazione, dunque, poco importa che entrino nel paese “vagabondi o produttori” – scrive Hoppe – anzi, “vagabondi e individui improduttivi potrebbero essere i residenti e i cittadini preferiti, in quanto si tratta di categorie che creano il maggior numero dei cosiddetti problemi ‘sociali’ e i governanti democratici prosperano proprio grazie all’esistenza di tali presunti problemi”. Il filosofo sostiene che “il risultato di questa politica di non-discriminazione consiste in un’integrazione forzata, ossia nell’obbligare a una convivenza forzata, con masse di immigrati di più basso livello, i proprietari del paese che, se avessero potuto scegliere, avrebbero mostrato una maggiore oculatezza e avrebbero scelto dei vicini alquanto diversi”. Per tornare al parallelo con lo scambio delle merci, “libero commercio” si riferisce a scambi che avvengono soltanto su sollecitazione di privati e aziende; “libera immigrazione non significa immigrazione su invito di singoli e imprese, ma invasione non voluta e integrazione forzata”. Altro che “immigrazione libera”, quella che si realizza in America e in Europa occidentale, secondo Hoppe, è “integrazione forzata bella e buona, e l’integrazione forzata è il prevedibile esito della regola democratica di concedere un voto a chiunque”.
La soluzione è “contrattuale” o non è
Per correggere questa tendenza, Hoppe propone misure correttive e preventive di tipo contrattuale. Le prime consistono nell’estendere la proprietà privata quanto più possibile, per ridurre il “costo della protezione” che spetta allo stato garantire. Il muro al confine tra Messico e Stati Uniti, secondo il pensatore, costa molto perché dalla parte americana ci sono ampi territori pubblici. Affidandoli ai privati, che s’intesterebbero la gestione dei flussi, si risparmierebbe. Le misure preventive equivalgono ad assicurarsi che ogni immigrato sia munito di “un invito valido da parte di un proprietario residente”; il soggetto che riceve l’immigrato si assume le responsabilità per le azioni compiute dal suo ospite, e l’immigrato sarà escluso dai servizi finanziati dal settore pubblico finché non diventerà cittadino. Un altro scenario, fantascientifico ma non troppo, che interroga anche l’Europa.
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