Photo-politics
La foto del piccolo Aylan, cadavere sul bagnasciuga turco dopo aver tentato di raggiungere l’Europa, è “terribile”, segna un momento di “risveglio collettivo” rispetto alle atrocità della guerra civile siriana. Dopodiché i silenzi e la commozione fini a se stessi, ostentati da larga parte dell’establishment intellettuale e politico europeo, dicono molto di noi occidentali, ha detto al Figaro ieri il filosofo francese Pascal Bruckner. “Al di là dello choc, la domanda che si pone è la seguente: in che senso siamo responsabili della morte di questo bambino? L’emozione, a questo punto, lascia il posto alla ragione”. O almeno dovrebbe, visto che finora anche le reazioni dei leader politici – tra la convocazione di un vertice straordinario o un piccolo aumento della quota di rifugiati da accogliere – sono rimaste confinate “nel pieno della politica compassionevole”.
Per Bruckner, “i responsabili immediati (della morte di Aylan, ndr) sono quelli che lo hanno costretto a rischiare nella traversata in mare, in piena notte. Questi rifugiati arrivano da Kobane, una città curda alla frontiera tra Siria e Turchia. E qui ci sono le responsabilità più profonde. Questa città è stata occupata per mesi dallo Stato islamico, prima di essere liberata dai curdi, ed è ancora minacciata dall’Isis. Quando il presidente turco Erdogan accusa l’Europa di aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero, gli dovremmo rispondere di iniziare lui a spazzare davanti alla sua porta. E’ uno dei padrini ufficiali dell’Isis. Lui e il suo esercito hanno assistito passivamente al martirio di Kobane”. Sono esattamente le stesse parole utilizzate dai parenti di Aylan. Politici e intellò europei invece sembrano più impegnati a dire “ho un cuore anche io, un cuore grande”. Il che “maschera l’assenza di una visione politica chiara sulla situazione di Siria e Iraq”. Col paradosso che l’Europa “infermiera” si “autoflagella”, secondo Bruckner, rifiutandosi però di intervenire direttamente contro l’Isis e gettando così i semi di nuove tragedie. Di cui poi sentirsi colpevole.
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