La verità, prima o poi, sul caso Cucchi
Non possono darsi, in uno stato di diritto, casi di cittadini che sono “entrati in una cella vivi e ne sono usciti morti”. Quando un potere legittimo e democratico prende in consegna il corpo di un cittadino diventa anche responsabile della sua incolumità. A questo principio, base di ogni altro diritto, questo giornale si è sempre attenuto a proposito del caso di Stefano Cucchi, morto all’ospedale Pertini nel 2009 sei giorni dopo l’arresto, e di altri analoghi. In base a un’idea liberale, su queste colonne hanno trovato spazio anche le argomentazioni di chi, come Carlo Giovanardi, sostiene che un “caso” non ci sia, tantomeno una uccisione, ma solo un processo mediatico allo stato e alle forze dell’ordine. Il giudizio di merito può ancora attendere: a dicembre inizierà il processo di Cassazione, dopo l’assoluzione in appello degli imputati nel “caso”.
C’è però un tempo che non è giusto attendere. Nell’inchiesta bis in corso, c’è ora la nuova testimonianza di due militari: dicono che quando Cucchi fu portato alla stazione di Roma Appia un sottufficiale dei carabinieri avrebbe detto che il ragazzo era stato “massacrato” di botte. Dunque non sarebbe stato picchiato dagli agenti penitenziari (il sindacato Sappe, sguaiato, già chiede delle scuse) ma, forse, al momento dell’arresto. Da carabinieri. Ieri, inoltre, è stata depositata una perizia di parte civile che, smentendo i periti del processo di primo grado, sostiene che Cucchi aveva una “frattura recente” a livello lombare. Altro brutto punto di domanda, e non abbiamo risposte da preferire. Ma se ci sono persone che, per anni, hanno taciuto ciò che sapevano – e per di più facendo parte a vario titolo di corpi dello stato – sarebbe grave. Qualunque sia stato il motivo, comunque non legittimo, del loro tacere.
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