Il non piano europeo per l'immigrazione
Roma. “Extend and pretend” è un motto in voga nel settore finanziario: il creditore allunga le scadenze sui prestiti e per un po’ fa finta che il debitore sia ancora solvente. Il creditore intanto spera che col tempo qualcosa cambi e che il debitore così possa restituire almeno una parte del dovuto. Secondo molti analisti, soprattutto di matrice anglosassone, tale approccio gradualistico, caro alla Germania, è stato applicato dal 2009 anche ai rapporti tra stati (con la Grecia nei panni del debitore per eccellenza), e costituirebbe la causa principale della lentezza con cui l’Eurozona sta superando – solo oggi – la crisi economica. Certo che se domenica, alle elezioni greche, il premier e leader della sinistra radicale Alexis Tsipras uscisse ridimensionato in quanto a sostegno popolare, magari a favore dei grigissimi successori del già grigio ex premier Antonis Samaras, a Berlino qualcuno potrebbe felicitarsi pure dell’efficacia politica dell’estenuante “extend and pretend”. Ma se le leadership europee, di nuovo al traino della cancelliera Angela Merkel, ritengono di poter replicare questa tattica di gioco per gestire la recente crisi migratoria, si sbagliano di grosso, ha scritto Holman W. Jenkins, membro del board editoriale del quotidiano americano Wall Street Journal. Non foss’altro perché “guadagnare tempo” è quello che tanti stati europei hanno fatto da decenni confrontandosi con l’immigrazione, e i risultati sono ben poco confortanti.
“Lodabile” l’istinto umanitario della cancelliera Angela Merkel, che ha detto di essere pronta ad accogliere quest’anno 800 mila rifugiati dal medio oriente, ma votato all’insuccesso. Jenkins valuta l’esperimento tedesco alla luce della letteratura sulla “coesione sociale”: “Un livello elevato di fiducia all’interno della società è ciò che ha reso possibile l’esistenza di un diffuso stato sociale in Europa, a cominciare dal modello scandinavo. I cittadini pagano sotto forma di tasse un ammontare maggiore della metà del proprio reddito perché attribuiscono un certo valore ai servizi che ricevono in cambio dal governo, e perché credono che anche gli altri cittadini paghino e non truffino per ottenere benefit di cui non hanno bisogno”. Se lo stato sociale in Grecia è al collasso dopo anni di espansione, le responsabilità della Troika impallidiscono di fronte alle conseguenze dell’assenza di un catasto o di un esattore fiscale degni di questo nome, con il clima di sfiducia e le pratiche corruttive che quell’assenza ha ingenerato.
[**Video_box_2**][**Video_box_2**]L’immigrazione, se non debitamente gestita, può iniettare sfiducia anche in società più efficienti, ha spiegato Christian Bjørnskov, della Aarhus University in Danimarca: “In Scandinavia abbiamo sempre avuto una grande fiducia nel prossimo, e questa fiducia è la pietra miliare del nostro welfare state”. La fiducia, come le risorse fiscali, ha un limite, e così da luglio la Danimarca è guidata da un governo conservatore che punta a ridurre i benefit welfaristici per i nuovi arrivati. Idem nel resto della Scandinavia. Il Wall Street Journal cita poi un economista con passaporto italiano e cattedra a Harvard, Alberto Alesina, che nel 2001 dimostrò in uno studio che se gli Stati Uniti non hanno mai adottato un welfare in stile europeo, ciò lo si deve anche all’“animosità etnica” di tanti elettori. Cripto-razzismo? No. Qualsiasi società dinamica, multiculturale e multietnica come quella americana difficilmente può generare livelli elevati di coesione sociale. Di fronte a questo dilemma, lo stesso Alesina, in tandem con Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera questa settimana ha suggerito di “ridimensionare lo stato sociale, limitandolo alle funzioni di base, cancellando i benefici per chi non ne ha bisogno, eliminando privilegi e sprechi, cose che dovremo fare comunque”.
E’ plausibile che la stessa Europa che negli anni 70 diede i natali all’“Eurosclerosi” possa adesso, in pochi mesi, trasformarsi nella culla della “distruzione creatrice” di schumpeteriana memoria, o del welfare ultra leggero e utilmente mirato? E se anche fosse, basterebbe? Chi predica accoglienza sconfinata spesso non si pone nemmeno la prima domanda. Un “non piano” perfetto di cui discutere di vertice in vertice.
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