Migranti e guerre. Un esodo storico non si governa col solo umanitarismo
Davanti all’esodo migratorio che preme, l’Europa appare confusa, incerta, per usare un eufemismo. A Bruxelles si discute ancora di quote dei rifugiati, si ribadisce il veto ai muri (che in ogni caso vengono oltrepassati) e la commissione europea annuncia che i paesi membri riluttanti ad accogliere profughi dovranno pagare multe onerose, ma poi i singoli stati, non solo quelli balcanici, chiudono e (ri)aprono frontiere in continuazione. Come in un giro di danza vorticoso, dove nessuno sembra conoscere il passo successivo. E in mezzo, anzi in fondo secondo un criterio esclusivamente geografico, ci siamo noi, davanti a un Mediterraneo minaccioso, a sole 170 miglia nautiche che ci separano dalla Libia. O meglio ci sono loro, quelli che per l’opinione pubblica divisa sul tema dell’immigrazione sono eroi, oppure meri esecutori di salvataggi che favoriscono, loro malgrado, i trafficanti: ufficiali della guardia costiera o della marina militare che in solo giorno, domenica scorsa, hanno soccorso oltre 4mila migranti nel Canale di Sicilia.
Come il capitano Massimo Tozzi, comandante del pattugliatore Cigala Fulgosi della marina militare che a ferragosto ha vissuto il momento più drammatico della sua vita da marinaio. E’ stato lui ad aprire la stiva, un cubicolo di un metro e mezzo, dove c’erano 49 cadaveri ammassati, asfissiati in poche ore, sei ore dopo la partenza dalla Libia. E, rammentandolo, indugia nelle pieghe ipotetiche dei se. E continua a dire “se fossimo arrivati prima, se fossimo stati in grado di salvare più persone” perché la legge del cuore, oltre a quella del mare, esige e impone di salvare tutti. Anche i peggiori bastardi. Come ha fatto poi durante un altro soccorso poche settimane fa, quando ha salvato, e poi isolato per consegnarlo alla polizia nel porto di Augusta, uno scafista che su un gommone stava picchiando con una cinghia alcune giovani donne africane. Queste due cruenti immagini, l’eccidio nella stiva e lo scafista fustigatore, spiegano bene cosa deve fare lui, con il suo equipaggio di 61 persone, ogni volta che deve recuperare un barcone di migranti. Con una frenesia, che lui stesso giudica eccessiva, dettata dall’istinto, per cercare di essere tempestivo e salvare quante più persone sia possibile. Ma dietro l’alone dell’angelo salvatore, c’è un altro pezzo di verità, poco rimarcata dai mass media perché politicamente meno corretta. E cioè che lui, 44 anni, due figli, appassionato dei romanzi marini, di Joseph Conrad e di Emilio Salgari, conduce una missione gloriosa e al contempo scabrosa. Perché salvare vite umane, emozionandosi ogni volta che ci riesce, in balia di un’ira funesta ogni volta che deve riportare nei porti cadaveri deformati dall’acqua marina, dal calore, dai pesci, è una missione gloriosa certo, ma anche una sorta di effetto collaterale di un esodo di cui vorrebbe vedere la fine. Lui, con un figlio di sette anni a cui racconta di andare per mare a combattere pirati, mostri a sette teste, ha un altro compito che è stato affidato alla Marina dal governo italiano: difendere la sicurezza nazionale dalle minacce del terrorismo che potrebbero arrivare dalla Libia, che lui definisce cautamente con un termine diplomatico “instabile”. E lo ribadisce più volte che il suo compito è proteggere i nostri confini attraverso l’operazione Mare Sicuro, subentrata nel marzo scorso alla missione umanitaria di Mare Nostrum, (Matteo Salvini legga e prenda appunti per i suoi comizi televisivi) e nel contempo l’incolumità di pescherecci, piattaforme petrolifere, mercantili.
E perciò il compito arduo che mette a dura prova la stabilità psicologica di chiunque si trovi di fronte a uomini, donne e bambini che rischiano ogni giorno di inabissarsi, è solamente l’effetto collaterale della sua missione per difendere l’Italia da scelte di politica estera, miopi. Ed è per questo motivo che il comandante della Fulgosi, incalzato dal Foglio, dopo aver raccontato la commozione che prova ogni qualvolta riesce a sottrarre i migranti al rischio si inabissarsi su carrette sovraffollate dai trafficanti, dice una frase che sottintende anche i limiti di un approccio esclusivamente legato al cuore e alla pancia dell’umanitarismo, senza usare raziocinio davanti alla necessità di regolare i flussi straordinari migratori innescati dalle primavere arabe e sconquassi geopolitici. “Io le faccio un semplice ragionamento. L’Italia è casa mia. E io se apro la porta di casa mia a chi bussa, voglio conoscere chi entra. Lei non vorrebbe sapere chi è che entra a casa sua? Lei lo sa che solo il 5% dei migranti arrivano con un documento? Ecco perché dobbiamo salvare ma anche vigilare”. Perché è vero che davanti alla stiva dell’orrore, a ferragosto, mentre dirigeva l’operazione dei soccorsi, era incredulo, stordito, inorridito come tutti i membri dell’equipaggio, ma si deve anche sapere che la marina militare durante quei salvataggi, oltre a combattere i mostri a sette teste, deve fare la prima indagine giudiziaria per individuare chi sta portando nei porti italiani. E aiutare le squadre investigative composte da carabinieri, poliziotti, interpreti, medici, volontari che aspettano gli sbarchi nei porti a dividere i buoni dai cattivi. E poi capire a chi spetta il diritto ad essere accolto, protetto come rifugiato e chi invece dovrebbe in teoria essere rimpatriato perché non sta fuggendo da una guerra, da una persecuzione, ma dalla miseria, dalla fame, e sempre più spesso anche dai libici in guerra. Il capitano Tozzi sta attento a tenersi alla larga dalle considerazioni politiche, ovvio, lui che è solo un marinaio, un ufficiale, e non riesce a togliersi dalla testa l’orrore della stiva di ferragosto, quando si è trovato davanti il primo cadavere di un ragazzino di dieci anni e ha pensato subito a suo figlio, che sta a Perugia e ogni volta che riprende la via del mare gli dà dei consigli per combattere i pirati. Ma ha anche un tono sconsolato, quando riflette sull’esodo: “A volte, quando finisce l’operazione di soccorso, mi chiedo se mai vedrò la fine di tutto questo. E temo, ho paura che io non vedrò la fine di tutto questo”. Come dire che si può essere eroi, e interpretare il ruolo dei buoni perché è solo così che i soccorritori vengono rappresentati dalla narrazione ordinaria di questo esodo straordinario, ma anche desiderare che questo esodo finisca, soprattutto se lo si vede da vicino, il male, ogni giorno in mare. “Chi non lo vorrebbe?”, dice Tozzi che non vuole analizzare le cause geopolitiche dell’esodo, perché “spetta agli storici riconsiderare le politiche verso i paesi del Mediterraneo e ben prima delle primavere arabe”, ma ci tiene a far sapere che la sua missione, quella della marina militare ora è difendere la sicurezza nazionale, lo ripete e lo ribadisce, dalla minaccia che potrebbe arrivare dalla Libia. E continuerà a sperare di essere tempestivo, di operare al meglio in mare per salvare vite umane di chi viene (o meglio transita) dall’Italia, per entrare in Europa e a vigilare le coste libiche, quel pezzo di Mediterraneo per noi minaccioso. Ma poi, continuerà a chiedersi, se mai si potrà vedere la fine dell’esodo di quello che è diventato per tutti Mare Monstrum.
[**Video_box_2**]“Abbiamo evitato che i trafficanti sequestrassero pescherecci per il traffico, che continuassero ad aggredire ufficiali della guardia costiera per avere più navi, come è accaduto in passato. Abbiamo fermato 200 trafficanti”, spiega, ma non spiega cosa deve fare la marina militare per difenderci dal pericolo libico anche se è noto che Mare Sicuro ha schierato un dispositivo aereonavale per la sorveglianza e la sicurezza marittima nel mediterraneo centrale, di fronte alle coste libiche. “Quando soccorriamo i migranti, noi siano più motivati. Li vogliamo salvare tutti, ma il nostro obiettivo è innanzitutto proteggere il nostro paese dalla minacce che possono arrivare dalla Libia. Si dice che il mare unisce e le montagne dividono. Giusto, ma il mare ora per noi è un confine vulnerabile. Ora come cittadino e militare le faccio io una domanda”, chiede il capitano Massimo Tozzi, comandante della Fulgosi. “L’Italia è casa sua. Lei aprirebbe la porta a qualcuno che non conosce? Noi dobbiamo conoscere chi entra a casa nostra, e poi dargli il benvenuto” E’ su questa domanda, che sintetizza in parte anche la filosofia della sua missione ma suona per noi come un dilemma sul fronte dell’accoglienza, che bisogna riflettere.
Il Foglio sportivo - in corpore sano