L'Opinionista Collettivo, VolksWagner e la caduta degli zebedei
Fuori l’Olimpo, dentro il Walhalla. Teseo, Antigone e il Minotauro rientrino pure negli spogliatoi, e si scaldino a bordo campo Wotan, Sigfrido e tutto il sindacato dei metalmeccanici nibelunghi che nelle viscere della terra assemblano Volkswagen. Dopo l’ubriacatura neoclassica dei giorni di piazza Syntagma è l’ora della cavalcata dei wagneriani: “L’oro falso del Reno”, commenta il Quotidiano Nazionale, annunciando la “caduta degli dei di Wolfsburg”; “Nel mondo dell’auto globale di massa, è quasi un Götterdämmerung, un wagneriano crepuscolo degli dei” (Repubblica); “La caduta del mito” (Zucconi, sempre su Rep.); “E’ la caduta degli dei. Non dall’Olimpo ma dalla Borsa di Francoforte” (Il Secolo d’Italia); “Volkswagen sembra uno scandalo più ‘tedesco’ perché ne ha scalfito il mito più grande, quello che ha ucciso anche Sigfrido: l’invulnerabilità” (La Stampa, che titola “La caduta degli dei dell’auto”). Marco D’Eramo, che è arrivato a Bayreuth senza prima aver smaltito tutto l’ouzo, prepara su MicroMega una specie di cocktail sincretista elleno-germanico: “Dalla Schadenfreude, passando per la Nemesi, non si può che finire nella Götterdämmerung”. E dove, sennò? In altre parti del mondo gli amministratori delegati si limitano a dimettersi, i titoli di Borsa a crollare; ma dal cielo sopra Berlino son sempre dei che cadono, più frequenti degli acquazzoni. Un commentatore evocò la Götterdämmerung perfino per lo schianto Germanwings (a quanto pare è la stessa caduta dei gravi ad avere, in Germania, proprietà wagneriane più che galileiane).
Potrei dire che è un Leitmotiv, ma a quel punto il lettore avrebbe diritto a picchiarmi. Più interessante è capire, ora che il pregiudizio antigermanico ribolle così forte da far quasi saltare il coperchio del razzismo, di cosa si compone la sua miscela. Tentiamo una simulazione alla maniera di “Inside Out”. La “memoria di richiamo” dell’Opinionista Collettivo, appena sente la parola Germania, attinge ad archivi cerebrali dove sono accatastati, alla rinfusa, Wagner e il nazismo kitsch di Visconti, pallidi echi del Faust, la parola “Schadenfreude” (alcuni hanno in repertorio anche “Heimat”), tracce di capolavori espressionisti visti nei cineclub in gioventù, titoli di Fassbinder che suonano bene, caricature di Grosz, cabaret di Weimar, e soprattutto film dove Hitler si suicida nei sotterranei di Berlino e le SS invasate sbraitano ordini pieni di gutturali. Tutto questo lavorìo mentale si compie in pochi secondi, di modo che quando si mette all’opera il nostro Opinionista è già nei palazzi di Asgard o nel bunker di Hitler, con i risultati che vediamo. Caso specialmente istruttivo, tanto che vale la pena citarlo anche a distanza di mesi, è l’articolo ormai classico di Concita De Gregorio sulla partita Brasile-Germania, il più importante apocrifo della letteratura sulla Shoah dai tempi delle memorie del falso deportato Wilkomirski. C’erano le SS robotiche (“Non la smettono. Sono il popolo che non smette. Non la smettono”), la denuncia del genocidio (il 7-1 come “distruzione di massa” e “carneficina”) e tutti i topoi della retorica su Auschwitz (“Spiegare l’inspiegabile”, “l’indicibile”, il “buco nero nella storia”), per finire con il terzino brasiliano che “ripete solo questo: perché?”. Il lettore di Levi si sarebbe aspettato a quel punto un crudele centravanti tedesco che risponde “Hier ist kein Warum”, qui non c’è perché.
[**Video_box_2**]In altri casi il gioco è più mascherato, ma una volta fatto l’orecchio è facile svelarlo. E’ chiaro per esempio che Luca Telese, con meno grazia di Miss Italia, sogna di tornare al 1942: “Godetevi pure questa drammaturgia planetaria, con le divinità del volante che sprofondano nella polvere, restate stupiti per la disfatta teutonica… dopo la bomba atomica che ha raso al suolo il più importante colosso industriale tedesco c’è il futuro dell’auto”. Lui vede i bagliori di Berlino in fiamme riflessi sul suo elmetto da Sturmtruppen. Per il lettore, è una comunissima caduta degli zebedei.
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