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Pietro Ingrao in una foto d'archivio (LaPresse)
Addio a Ingrao, rivoluzionario senza la rivoluzione
I titoli dei giornali di oggi sulla morte di Pietro Ingrao sono davvero interessanti. Hanno tutti lo stesso “aroma”. Repubblica: “Addio a Pietro Ingrao, coscienza critica della sinistra”. Corriere della Sera: “Il comunista che amava il dubbio e voleva la luna”. La Stampa: “Addio Ingrao lo sconfitto che voleva la luna”. Il Messaggero: “Addio a Ingrao voce eretica del comunismo”. Può bastare. Coscienza. Luna. Eretico. In realtà Ingrao non fu questo o meglio non lo fu come viene immaginato dall’agiografia di massa e dai messaggi di queste ore. La rivoluzione di Ingrao non è mai esistita, c’era a parole ma veniva sempre negata nei fatti della vita. Era nato nel 1915, aveva compiuto un secolo il 30 marzo scorso, veniva da una famiglia borghese, liceo a Roma. Cominciò la sua vita politica partecipando nel 1934 ai Littoriali della Cultura, divenne bolscevico negli anni Trenta dopo i fatti di Spagna e rimase un comunista con molta poesia e nessuna eresia. Scelse sempre il partito. Votò per l’espulsione degli ingraiani del Manifesto e fu talmente dentro gli ingranaggi del sistema da divenire il primo comunista presidente della Camera. Nel 1978 il giorno del rapimento di Aldo Moro scrisse un discorso che invitava a “l'impegno per correggere gli errori, le debolezze, le insufficienze dello Stato democratico e per dare realtà alle riforme necessarie per sanare queste lacune, con spirito autocritico e rigore". Non lo pronunciò mai. Ingrao si autocensurò. Fu il rivoluzionario senza la rivoluzione, il più conservatore di tutti.
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