Quel giorno in cui mio figlio uccise
Quando un tizio impazzisce e spara in una scuola o in un college è sempre un fatto orribile ma quant’è più orribile se quel tizio è tuo figlio?
Il “meccanismo narrativo” che si instaura in casi simili è più o meno sempre lo stesso: testimonianze, indagini, il “doppio fondo” scovato nella vita dell’assassino, i primi piani dei piangenti, i profili delle vittime, le corone dei fiori, sconcerto, cordoglio. I “si poteva evitare”, i “mai più” e, in un secondo momento, una chiesa in silenzio, il sermone commovente di un prete che richiama a precise responsabilità la politica e la cittadinanza.
In capo a una settimana l’argomento del giorno torna a essere il meteo e noi ci rivediamo dopo la pubblicità.
Ma quanto dura una settimana se quel tizio è tuo figlio?
Ciò che manca a questo tipo di vicende perché le si possa percepire sul serio come autentiche e prossime, al di là della distanza geografica o culturale, ciò che manca sempre è una terza dimensione, anzi una quarta, cioè qualcosa che ci faccia scorgere la normalità nella follia. In tal senso, nel caso della strage all’Umpqua Community College, c’è stata una specie di interruzione di corrente che ha fatto saltare l’intero impianto, vale a dire l’immagine effettiva del padre, non di una vittima ma dell’assalitore, che nella più completa normalità, pochissime ore dopo i fatti, si fa semplicemente strada tra le auto parcheggiate nel vialetto d’accesso della sua abitazione per andare a parlare coi giornalisti schierati, in un certo senso uscendo dal grande schermo della rappresentazione per unirsi agli spettatori reali. Non che abbia detto niente di trascendentale Ian Mercer - il breve video è consultabile ovunque su internet - se non le solite cose: “Sono scioccato, è stata una giornata devastante, vi chiedo di rispettare la privacy della mia famiglia…”, eccetera, ma il fatto che quell’uomo fosse in effetti il genitore del “mostro”, che fosse in grado di mantenere una dignità colossale, il fatto stesso che ci facesse l’affronto di esistere, ha srotolato su tutta la vicenda un manto di realismo come nessuna ripresa o testimonianza avrebbe potuto e come in effetti non succede quasi mai. Un padre vivo in una Polo grigia stropicciata da qualche ora di televisione in poltrona e un piccolo tatuaggio sull’avambraccio che parla nel suo giardino e poi rientra in casa; i capelli brizzolati tagliati con uno stile militare - e tagliati così quando?, quando di certo suo figlio e altre nove persone erano ancora in vita, lui chiuso da qualche parte a nutrire odio tra i poster appesi della sua adolescenza.
Non saprei in che altri termini metterla ma è stato come avvertire il colpo della coda di un leone sugli stinchi, anziché limitarsi a vederlo in un documentario su Discovery Channel.
Jens Breivik, un altro padre di un altro figlio, Anders, autore di un’altra strage, quella di Utøya nel 2011 - un uomo di settantacinque anni circa, aspetto gioviale e pacifico di chi si sia sempre attenuto a uno standard di vita tra il reazionario e il banale, sebbene tacciato in seguito dalla stampa di cattivo carattere e di essere stato in effetti un pessimo genitore - rivelò di essersi fatto una sola domanda, appena raggiunto dalla notizia che suo figlio aveva massacrato settantasette persone: «E io dov’ero?».
Da poco ha scritto anche un libro, il titolo è angosciante: “Colpa mia?”.
Alla fine del video, Ian Mercer dice ai cronisti: «Non posso rispondere a nessuna domanda, mi dispiace», ma di sicuro a queste sì. A queste risponderà.
[**Video_box_2**]Dov’era? È colpa sua?
Perché se tutto può fare un genitore, scindere se stesso dal figlio no: accettare che il sangue del proprio sangue sia altro da sé è impossibile, innaturale.
E allora che cosa resta, mentre noi, distanti migliaia di chilometri, già cominciamo a dimenticarci dell’ennesimo tizio che è impazzito e ha ucciso senza motivo, se non dividere la responsabilità del massacro?
Se quel tizio è tuo figlio almeno è meglio di niente.
Il Foglio sportivo - in corpore sano