Non solo “Rompiscatole”. Greenpeace cambia strategia e inizia a lavorare con le aziende
Il 10 luglio del 1985 la nave di Greenpeace “Rainbow Warrior” colò a picco, colpita da due bombe messe dai servizi segreti francesi durante una sosta in Nuova Zelanda, poco prima di un’azione dimostrativa contro il poligono nucleare di Mururoa. Il 19 settembre 2013, 30 attivisti di Greenpeace vennero arrestati dalla Guardia costiera russa mentre protestavano contro una piattaforma di Gazprom nell’Artico. Ma l’8 dicembre 2014 un’altra azione di Greenpeace ha provocato un danno irreparabile al sito archeologico e ambientale peruviano delle linee di Nazca. E innumerevoli sono stati gli episodi in cui Greenpeace si è fatta notare per azioni particolarmente aggressive, dagli arrembaggi alle navi, agli attacchi alle piantagioni biotech. Innumerevoli anche le accuse avanzate alla sua struttura verticista. Lo stesso Patrick Moore, dopo essere stato suo fondatore e direttore per 15 anni, ha accusato Greenpeace di essere scaduta in una “retorica ambientalista” che avrebbe “molto più a che fare con la lotta di classe e con l’anti-globalizzazione che con l’ecologia e la scienza”, mentre lo Spiegel la tacciò di “scarsa trasparenza”. Eppure, da un po’ di tempo a questa parte questa organizzazione con fama di ecologismo radicale e con una catena di comando interno di tipo quasi leninista ha iniziato a lavorare con le imprese seguendo persino le logiche di mercato. E in modo anche intenso.
L’ultimo episodio che è finito sui media italiani è quello del tonno. Il movimento ambientalista ha promosso le pagelle di sostenibilità ecologica dei metodi di pesca di undici marche di scatolette che finiscono sulle nostre tavole, assegnate dalla classifica “Rompiscatole”, ormai alla quarta edizione. Primo posto a AsDoMar, che è anche la prima impresa a raggiungere il top della qualificazione. Piazze d’onore a Esselunga e Conad, mentre Rio Mare si è classificata quarta perché, secondo Greenpeace, “dimostra di voler mantenere gli impegni ma non ha fatto ancora abbastanza”. Ultima in graduatoria è Mareblu, che malgrado il nome particolarmente ecologico pescherebbe in modo sostenibile solo lo 0,2 per cento dei suoi prodotti. Greenpeace Italia riconosce comunque che in cinque anni il settore ha fatto passi da gigante: da una situazione in cui nessuna azienda aveva adottato criteri di sostenibilità, a una in cui tutti i marchi analizzati “hanno politiche di acquisto scritte nero su bianco”.
Un caso ancora più clamoroso si è verificato però quando Ségolène Royal lanciò il suo anatema contro la Nutella “distruttrice di foreste”, e proprio Greenpeace intervenne per difenderla. “Ferrero, il produttore della Nutella, è uno dei gruppi più all’avanguardia in termini di sostenibilità per quanto riguarda l’approvvigionamento di olio di palma”, disse. “Per andare incontro alle richieste dei suoi consumatori Ferrero è stata una delle prime società ad annunciare una policy interna per cessare l’utilizzo di olio di palma derivante da deforestazione”. È possibile che sia stata proprio la coda di paglia dei socialisti francesi per la storia del “Rainbow Warrior”, più ancora che le proteste del governo italiano, a far fare alla Royal il suo rapidissimo dietro front.
Ma anche su internet Greenpeace dà simili pagelle. E dal report 2014 “Clicking green: How Companies are Creating the Green Internet” risulta ad esempio che l’omologo di AsDoMar e Ferrero tra le grandi multinazionali dell’Itc mondiale è Apple, unica azienda che ottiene energia rinnovabile al 100 per cento dai propri data center. Anche Facebook eccelle, mentre sono state bocciate Amazon, Google e Twitter. Media classifica per Yahoo!, eBay, Ibm e Oracle che – dice Greenpeace – hanno fatto qualcosa ma potrebbero fare di più.
Un esempio della strategia di Greenpeace si è avuta nel campo delle produzioni tessili. Prima fase: performances mediatiche durante la settimana della moda a Parigi e a Milano; presidi davanti ai negozi dei brand globali. Seconda fase: incontro con le imprese per chiedere di rendere la filiera della moda trasparente e ridurre l’impatto inquinante delle sue lavorazioni. Terza fase: l’impegno Detox con cui nel settembre del 2014 sei delle più grandi aziende del tessile italiano hanno accettato di ripulire le proprie filiere da sostanze tossiche e pericolose.
Con l’Enel, la “pace” è arrivata dopo nove anni in cui c’erano state altrettante denunce in tribunale. Una vera e propria guerra giudiziaria. Ma nel 2014 il nuovo amministratore delegato e direttore generale Francesco Starace ha annunciato la riconversione di 23 centrali termoelettriche del gruppo in Italia, e nel marzo 2015 ha addirittura incontrato il direttore esecutivo di Greenpeace International, Kumi Naidoo, e il presidente di Greenpeace Italia, Andrea Purgatori, per condividere i piani di medio-lungo termine. Il recente sviluppo di Enel in America latina è collegato anche all’idea che fonti rinnovabili come il sole o il vento in quel contesto geografico possano essere molto più convenienti che in Europa, e anche l’ultimo viaggio di Renzi in America latina è stato fortemente legato alla promozione di questa strategia. In particolare in Cile, dove il presidente del Consiglio ha inaugurato un nuovo polo di energia rinnovabile di Enel Green Power che è composto dal parco eolico Taltal, dalle centrali fotovoltaiche Lalackama I e II, dall’impianto ibrido di Ollagüe e dal progetto di centrale geotermica Cerro Pabellón.
[**Video_box_2**]Last but not least di questa strategia di mercato di Greenpeace, è stata la decisione di comprare miniere di carbone in Germania per… chiuderle. È stata la sezione svizzera del movimento che, approfittando dei prezzi bassi del mercato, ha presentato una offerta al gruppo svedese Vattenfall per un impianto di estrazione che si trova nel territorio dell'ex Germania est.
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