Per le pensioni serve un sistema di prestiti contributivi per i tempi moderni

Nicola Rossi
La sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale italiano è fra i pochi rilevanti risultati conseguiti nel ventennio che intercorre fra la crisi del 1992 e quella del 2011.

La sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale italiano è fra i pochi rilevanti risultati conseguiti nel ventennio che intercorre fra la crisi del 1992 e quella del 2011. E’ un risultato da difendere e consolidare. Ma è anche un risultato visibilmente tutt’altro che definitivamente acquisito, come dimostra il fatto che la discussione sul futuro del nostro sistema previdenziale si è nei fatti riaperta e solo in apparenza su aspetti marginali. Non è affatto un caso che la discussione abbia, in alcuni casi, preso la forma di vere e proprie proposte complessive di riforma del sistema.

 

Il punto di debolezza dell’attuale sistema sta nelle modalità stesse con cui il sistema previdenziale italiano si è andato definendo. Nel 2011 è stata portata a termine, a distanza di oltre 15 anni, la riforma del sistema previdenziale avviata nel 1995 dopo un dibattito durato come minimo altri 15 anni. Varare una riforma in tempi così dilatati è, evidentemente, una delle modalità più sicure per minimizzare le resistenze alla riforma stessa. Ma ha un costo fin troppo evidente: si finisce per riformare per il passato e non già per il futuro. Non è affatto un caso che il principale elemento di insostenibilità del sistema previdenziale italiano sia dato dalla significativa distanza fra il mercato del lavoro così come si è andato evolvendo nell’ultimo ventennio e la struttura del sistema previdenziale. Il sistema contributivo adottato nel 1995 presuppone una occupazione stabile e possibilmente priva di significative interruzioni, carriere lavorative come se ne conoscevano fino alla fine del secolo scorso e non già come se ne sperimentano ora. I limiti del sistema previdenziale che oggi emergono sono niente altro che la conseguenza di questa banale constatazione.

 

A ciò si aggiunga che fra il 1995 e il 2011 non sono mancati interventi sul sistema previdenziale spesso ispirati a logiche legittime ma diverse rispetto a quelle su cui la riforma del 1995 era basata (e valgano per tutti l’esempio delle rigidità introdotte rispetto all’età di accesso ai trattamenti pensionistici, il fiorire di imposte pudicamente denominate “contributo di solidarietà” e l’eterna e, questa sì, del tutto illegittima tentazione di rivedere le regole ex-post). Sia pure in misura minore si è quindi ricreata la situazione propria del sistema pre-riforma Dini: una scomposta e disordinata sovrapposizione di logiche previdenziali distinte a cui fa regolarmente seguito una percezione diffusa di iniquità del sistema che finisce, nel medio periodo, per minarne le fondamenta.

 

Se questa descrizione dell’esistente è ragionevolmente accurata, ne segue che ogni intervento dovrebbe essere chirurgicamente mirato ad aumentare il grado di coerenza fra il sistema così come lo abbiamo immaginato nel 1995 e il mercato del lavoro a cui si sovrappone per rendere il sistema più saldo e stabile e non già a sovrapporre logiche di fondo diverse, moltiplicando le ragioni di instabilità. Il che solitamente avviene quando si adottano provvedimenti estemporanei con i quali si pensa di risolvere un problema specifico, senza rendersi conto che se ne sta determinando un secondo alla lunga molto più rilevante.

 

[**Video_box_2**]Bene il governo: evitare mosse estemporanee
La discussione sulla flessibilità in uscita ha molte di queste caratteristiche e sarebbe utile e necessario che i prossimi mesi non vedano quel che hanno visto i mesi passati: un susseguirsi alle rinfusa di proposte prive, almeno in apparenza, di una comune razionalità di fondo. Soprattutto sui temi previdenziali, è opportuno parlare poco e solo quando si è ragionevolmente certi di quel che si può e vuole fare e, sotto questo profilo, la scelta del governo di non affrontare il tema purchessia è assolutamente corretta. Ma la questione della flessibilità in uscita non è l’unico esempio di questa confusione potenzialmente dirompente. Riemerge un giorno sì e un giorno no – per fare solo un esempio – l’idea di un trattamento previdenziale di base a carico della fiscalità generale. E’ evidente in questa ipotesi la volontà di affrontare per tempo le inevitabili conseguenze (dal punto di vista dei trattamenti pensionistici) delle tendenze occupazionali prevalse negli ultimi vent’anni. E’ bene sapere però che, a quel punto, dello spirito della riforma del 1995 rimarrebbe poco o nulla (e forse, per garantirne la sostenibilità finanziaria, dello stesso sistema previdenziale pubblico rimarrebbe solo quel trattamento di base: se è questo l’obbiettivo, peraltro legittimo, forse è il caso di renderlo esplicito).

 

La soluzione per salvare l’architettura della riforma del 1995 e per adeguarla al mercato del lavoro che abbiamo oggi e che avremo nei prossimi decenni sta altrove e sta nel magnificarne i caratteri di flessibilità costruendo un sistema di prestiti contributivi – nulla a che vedere, sia chiaro, con i contributi figurativi e nulla a che vedere, sia ancora più chiaro, con le bizzarre proposte emerse nel recente dibattito (e peraltro già contenute nell’art. 4 della legge Fornero) – in grado di trasformare carriere lavorative spesso discontinue in carriere previdenziali ragionevolmente continue. Lo si sarebbe dovuto fare anni fa e siamo già in grave ritardo. Ma se si aspetta ancora, questa fonte di insostenibilità del sistema finirà per minare la stabilità finanziaria del sistema stesso costruita negli anni con grande fatica.

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