Bye bye bad bank, la storia politica di un'idea (arenata) che poteva essere utile all'Italia
Roma. Negli ovattati uffici di Palazzo Berlaymont, a Bruxelles, tra la Commissione europea e l’Italia si stanno giocando gli ultimi scampoli di una partita ad alto impatto politico-economico e che nei giorni scorsi ha assunto toni insolitamente aspri: quella per il via libera al varo della bad bank nazionale. Che i toni si siano induriti lo dimostra il botta e risposta tra la responsabile della Concorrenza di Bruxelles, Margrethe Vestager, che ha affermato di essere ancora in attesa di una proposta italiana in merito, e il ministero dell’Economia che in una nota piccata ha ribattuto di averne presentata una circostanziata il 1° ottobre. “Bad bank” è termine che non piace al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e al governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, perché evoca l’idea di qualcosa di “cattivo” – meglio sarebbe parlare di Asset management company – ma che rende bene il concetto di un’entità che si fa carico degli asset tossici, ovvero i crediti in sofferenza presenti nei portafogli degli istituti italiani, liberandoli da una zavorra che in settembre ha raggiunto la cifra record di 204 miliardi di euro (348 se alle sofferenze si sommano i crediti scaduti e incagliati), il 23 per cento del totale dei prestiti erogati dal sistema. L’idea, che non dispiace neppure alla Banca centrale europea, è che i bilanci bancari, alleggeritisi di questo fardello, possano destinare risorse al rilancio degli investimenti e al consolidamento della ripresa. Tuttavia Bruxelles stenta a mettere il suo timbro sulla bad bank italiana; teme che l’operazione comporti un coinvolgimento dello stato che si configurerebbe come aiuto alle banche. Il risultato è un defatigante negoziato che, dalla sua apertura nel gennaio scorso, assomiglia sempre più a una partita di ping-pong.
La Commissione europea non ha chiuso da subito alle proposte italiane. Tanto che nello scorso maggio il premier Matteo Renzi si spingeva ad affermare che “nelle prossime settimane il passaggio della bad bank troverà concretizzazione”. La concretizzazione però non è arrivata. Le parti si sono riviste ma, anche se si sono fatti progressi per venire incontro alle richieste di Bruxelles, la data per una soluzione è stata spostata a dopo l’estate. Al termine della sua visita a Roma a fine settembre la Vestager gelava tuttavia le speranze dicendo di “non poter prevedere una data per la conclusione del negoziato”. Anche l’ultimo schema di cui si vocifera adesso, che facendo un ulteriore passo nell’ottica di Bruxelles prevede una Asset management company partecipata dai privati e con il coinvolgimento della Cdp (come ha scritto MF-Milano Finanza), o nell’equity, o in qualità di garante di bond senior emessi dalla Amc, non sembra per il momento avere generato entusiasmo a Palazzo Berlaymont.
Al di là dei tecnicismi, il punto è che l’Italia è arrivata buona ultima su questo fronte. Nel 2012, quando paesi come Spagna e Irlanda la adottarono accompagnandola al contributo del Fondo salva stati (Esm), esistevano le condizioni di emergenza finanziaria e una disposizione più favorevole della Commissione che avrebbero facilitato l’operazione, ma il governo di allora, guidato da Mario Monti, non volle percorrere questa strada. Certo, come osservano alcuni esponenti di fondi d’investimento, l’Italia si trovava pure in un momento assai critico e non si sarebbe potuta permettere un appesantimento del debito pubblico simile a quello cui andò incontro la Spagna in cambio degli aiuti europei. Passata la tempesta finanziaria, tuttavia anche il successore di Monti, Enrico Letta e il suo ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni (ex Banca d’Italia), pur non esplicitando mai obiezioni di principio all’ipotesi bad bank, non fecero propria l’idea, come rilevò il Financial Times. E fu soltanto dopo un’esortazione del governatore Visco che Palazzo Chigi uscì allo scoperto, limitandosi ad affermare in una nota di “valutare positivamente iniziative anche di natura consortile di operatori di settore” ma di “ritenere che a tale scopo non sia necessario l’impiego di risorse pubbliche nazionali o comunitarie”. Mentre il pressing cauto della Banca d’Italia non è mai scemato, è stato il governo Renzi, in carica dalla primavera 2014, a cambiare linea: che all’Italia serva una bad bank al premier è stato chiaro da subito. Nel frattempo tuttavia lo scenario europeo è cambiato. Il 1° gennaio 2016 entrerà in vigore la nuova normativa sul bail-in che prevede siano gli azionisti e i creditori privati, nonché i correntisti oltre i 100 mila euro, a farsi carico del salvataggio di una banca in difficoltà, riducendo a ipotesi estreme il coinvolgimento della mano pubblica e aprendo alla possibilità di costituire una bad bank, non di sistema bensì interna alla banca stessa, tra i passaggi del salvataggio. Un approccio, questo, che induce la Commissione europea a una severità non riscontrata nei confronti di altri paesi e che si esercita anche nei riguardi di soluzioni “di mercato” proposte dall’Italia generando una comprensibile irritazione da parte del Tesoro.
[**Video_box_2**]Se la partita della bad bank dovesse chiudersi con un nulla di fatto, come a questo punto non è da escludere, l’Italia non resterebbe comunque senza paracadute, perché nel frattempo il governo ha fertilizzato il terreno per una soluzione “di mercato” al problema delle sofferenze. I provvedimenti adottati in questi ultimi mesi, dalla riforma delle banche popolari alla deducibilità in un anno dei crediti svalutati, dall’accelerazione delle procedure esecutive e fallimentari all’imminente autoriforma delle banche cooperative, vanno tutti infatti nella direzione di migliorare le condizioni per l’escussione dei crediti e dunque per lo sviluppo di un circuito degli asset deteriorati delle banche. “Nelle prossime settimane si verificherà la fattibilità del progetto (bad bank, ndr) – ha ammonito Visco alla Giornata del risparmio – Indipendentemente dall’esito le banche dovranno individuare le modalità per un ridimensionamento delle sofferenze”. Certo i volumi del mercato “libero” sono oggi quasi insignificanti (11 miliardi di operazioni tra il 2011 e il 2014), ma incoraggia il fatto che solo nel primo semestre 2015 siano stati smobilizzati crediti per 5 miliardi. Del resto la stessa agenzia di rating Moody’s ha certificato un possibile cambio di passo con l’innalzamento, dopo sei anni, da negativo a stabile, del rating del sistema bancario italiano. Un giudizio, questo, sul quale pesano non solo la ripresa in atto ma anche “le attese per una graduale flessione dello stock di asset tossici detenuti dagli istituti”, ha scritto l’agenzia. Se anche il salvataggio delle banche attualmente commissariate (Carife, Marche, Etruria e Carichieti) passerà attraverso un intervento dei privati, vorrà dire che l’Italia, unico tra i paesi europei, si sarà avviata – volente o nolente – a risolvere i problemi delle sue banche con soluzioni market friendly. Si capirà poi con quanto successo.
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