Ecco come contrastare l'autunno demografico, da sinistra
L’economista di Stanford, Edward Lazear, intervistato sabato scorso su queste colonne, ha ragione a sottolineare l’importanza degli andamenti demografici i quali, quando volgano verso il decremento della popolazione, possono accomunare in un medesimo destino di declino sia i processi macroeconomici sia l’evoluzione dell’imprenditorialità. Ha torto, però, nell’attribuire alla demografia un ruolo quasi esclusivo e nel trascurare altri fattori, scartando l’ipotesi che si riproducano oggi condizioni da secular stagnation analoghe a quelle di cui parlò il keynesiano Alvin Hansen negli anni 30 del secolo scorso. Se l’invecchiamento e il restringimento demografico della popolazione, e dunque della forza lavoro, fossero la causa prima alla base della frenata odierna della crescita economica (tipicamente originata dalla somma dell’incremento del numero di occupati e di quello della produttività), non ci spiegheremmo come mai rimangano così elevati non solo i tassi di disoccupazione specie giovanili, ma anche il numero dei giovani che né lavorano né studiano (i Neet, in Italia passati da 1,8 milioni di unità nel 2008 a 2,4 milioni nel 2014). Bisogna chiedersi se non operino fattori di domanda (che fanno sì che le imprese “intraprendano” poco e male e perciò domandino poco lavoro e per di più in genere dequalificato) e fattori di offerta (ristrutturazioni in corso, cambiamenti tecnologici profondamente influenti sulla quantità e la qualità di lavoro, ecc.) che sono proprio quelli che l’ipotesi della secular stagnation permette di prendere in considerazione.
Nell’aggiornare l’analisi di Hansen – le cui previsioni si rivelarono erronee, ma di cui rimane valida l’intuizione secondo la quale la Depressione degli anni 30, ben più che una severa crisi ciclica, costituisse il sintomo dell’esaurimento di una dinamica di lungo periodo – l’ex segretario al Tesoro americano Lawrence Summers incorpora pienamente il significato della crisi globale del 2007/2008 e attribuisce la carenza odierna di domanda aggregata a un eccesso del risparmio desiderato rispetto all’investimento desiderato, a sua volta dovuto alla fortissima pressione a rientrare dal loro indebitamento (deleveraging) avvertita da tutti gli operatori privati (famiglie e imprese), i quali pertanto si tengono ben lontani dall’investimento. Il premio Nobel Paul Krugman insiste sul fatto che i due cicli precedenti quello corrente si sono concretizzati nelle più grandi “bolle” da debito e da incremento dei prezzi degli asset nella storia dell’umanità e che in futuro non potremo in nessun caso tornare ai precedenti livelli di indebitamento per finanziare gli investimenti, i quali, quindi, sono destinati inesorabilmente a cadere. Thomas Palley, nell’analizzare un’economia che, “autocannibalizzandosi” attraverso la sperequazione disegualitaria dei redditi e l’indebitamento, ha necessità di grandi bolle speculative per crescere, il cui passo logico successivo, in assenza di un rovesciamento di paradigma, è la stagnazione, la considera il prodotto della politica economica neoliberistica, che è messa specificamente a fuoco, e di cui è rivendicato un rovesciamento attraverso il ripristino di un quadro strutturale keynesiano raccomandante la ricostruzione di meccanismi di generazione del reddito e della domanda attraverso politiche che includano il rafforzamento del potere di negoziazione sindacale, la riforma della globalizzazione, il controllo delle corporation e dei mercati finanziari. Nei processi richiamati c’è peraltro in azione uno specifico fattore che altera profondamente la funzione imprenditoriale: la finanziarizzazione la quale, facendo crescere la ricchezza finanziaria più rapidamente del prodotto, accentua la separazione tra “ricchezza in generale” e “capitale produttivo” e rende all’imprenditore sommamente conveniente trasformarsi in un rentier.
Le riforme supply-side non bastano
[**Video_box_2**]In una drastica svalutazione di tutte le soluzioni supply-side – come benefici fiscali, incentivazione della creatività, elevamento dell’occupabilità dei lavoratori, indistinto stimolo all’innovazione – gli autori richiamati vedono in grado di sopperire alle drammatiche prospettive indicate soltanto una fertilizzazione reciproca tra operatore pubblico e imprenditori privati, entrambi trasformati dalla volontà di procedere a massicci investimenti, a partire dalle infrastrutture, tanto più che i capitali necessari, dati i bassi tassi di interesse, possono essere presi a prestito a costi assai poco elevati. Dunque, la pluralità e la complessità delle variabili in gioco inducono a sottolineare l’urgenza di una “riforma radicale del capitalismo” – da declinare in termini esigenti, analoghi a quelli con cui fu pensata negli anni 30 del Novecento, quando si avviò una straordinaria riflessione grazie all’avvincente avventura di Roosevelt e agli apporti di Keynes, della socialdemocrazia svedese animata dai coniugi Myrdal, del laburismo inglese influenzato da Beveridge – come fa un lavoro collettivo del Forum Economia della Cgil significativamente intitolato “Riforma del capitalismo e democrazia economica” (Ediesse). In tal senso va il dilagare di studi che esplorano la possibilità di nuovi tipi di imprenditori e si rifanno a espressioni immaginifiche, del tipo reimagining capitalism o regenerative capitalism. Oggi la prima cosa da fare è comprendere che la creazione di valore è il frutto di processi assai più complessi della sola competizione economica, ragion per cui abbiamo bisogno di una forma più sofistificata di capitalismo, impregnata di finalità più sociali. La seconda cosa da fare è prendere atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco in agente del capitale finanziario. Così il ragionamento si sposta sulla democrazia economica, la partecipazione, i vari tipi di impresa che possono essere immaginati, variamente dotati di governance e di spirito “socialmente responsabile”.
Laura Pennacchi è economista, Fondazione Basso
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