Se non ci fosse la CO2, la politica chiederebbe alla scienza di inventarla
Eppure ci sarebbe tanto su cui ragionare. A partire dal fatto che, se si prende per buono lo schema di chi oggi saluta con entusiasmo l’esito del meeting parigino, queste conferenze internazionali sembrano profilare un ordine giuridico globale in cui le opinioni contano sempre meno, perché le decisioni sono in definitiva poco più che la traduzione politica delle analisi degli scienziati. Quanti studiano il clima avrebbero individuato con ragionevole certezza il legame tra emissioni da combustione e mutamento del clima e, a partire da qui, avrebbero deciso d’imporre una frenata a una serie di produzioni industriali e comportamenti privati. Apparentemente, la scienza decide e il mondo prende atto.
Tutti coloro che salutano con gioia il risultato della conferenza sul clima non sembrano neppure prendere in considerazione le implicazioni di questo ridefinirsi del rapporto tra potere e conoscenza. Né paiono consapevoli del fatto che questa scienza fattasi politica mostra di aver ben poco a che fare con la migliore tradizione del metodo sperimentale: è sempre meno disposta a considerare come provvisori, controvertibili e bisognosi di approfondimenti i risultati della propria ricerca.
La logica che ha portato all’approvazione del documento finale è davvero lineare: probabilmente troppo. La tesi è che il riscaldamento sia dovuto primariamente al diossido di carbonio, che esso sia prodotto dagli uomini e che quindi si debbano bloccare le emissioni. Non è presa in esame l’ipotesi che il riscaldamento non vi sia (i dati certi riguardano una serie storica assai limitata) o che anche in quel caso esso abbia origini naturali (le dinamiche interne al Sole), e che comunque sia più ragionevole far fronte agli effetti – proteggendo le coste, ad esempio – invece che destinare somme più ingenti per raffreddare l’atmosfera.
Questa scienza sottratta al confronto, al dialogo e alla controversia tagli i ponti con la tradizione scientifica: e a questo punto c’è paradossalmente da chiedersi quanto sia la scienza a farsi politica e quanto invece non sia l’opposto. A metà del diciassettesimo secolo Thomas Hobbes affermò – e pensava alla teologia – che la verità doveva essere formulata dal sovrano (auctoritas facit legem): oggi le diatribe sulla giustificazione e sulla trinità certo interessano meno, ma i governi si preoccupano invece di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è. In fondo, solo sei anni fa tutti restarono scioccati dallo scandalo che interessò il Climate Research Unit, che manipolava i dati sul clima per enfatizzare l’aumento delle temperature. Oggi forse capiamo meglio.
[**Video_box_2**]Le società complesse sono sempre minacciate da logiche tecnocratiche: è un dato strutturale. Ma qui c’è qualcosa di più, se si considera che ci troviamo dinanzi all’oggettiva convergenza degli interessi di taluni specifici settori della ricerca (che spingendo in una certa direzione gli esiti delle ricerche hanno solo da guadagnare) e gli obiettivi del ceto politico, che in linea di massima è orientato a rafforzare ogni controllo della vita sociale. Perché è chiaro che se questa storia del diossido di carbonio non ci fosse, molti governi avrebbero tutto l’interesse a inventarsela. E questo non può lasciarci del tutto tranquilli.
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