Sperate che sia colpevole
Tristezza e rabbia, oggi 12 dicembre 2015, per me e per tanti altri, fortunatamente non sono solo. Perché, a seguito di un processo durato circa 8 anni, Alberto Stasi stamani si è costituito dopo aver riportato una condanna a 16 anni di reclusione resa definitiva dalla sentenza emessa dalla Cassazione. Per carità, nessuna polemica – ci mancherebbe altro – nei confronti dei magistrati. Ma tanta rabbia per un sistema giudiziario che non può non fare paura per quanto è lento e contraddittorio. E tanta vergogna visto che Voltaire si rivolta nella fossa da ormai quasi 250 anni con la stessa rabbia.
Alberto Stasi venne assolto in primo e secondo grado, evidentemente perché quantomeno la maggioranza dei magistrati intervenuti aveva giudicato insufficienti le prove a suo carico. Magistrati regolarmente in servizio, di normale esperienza, mai interdetti per imbecillità, mai accusati di condotte dolose o colpose fuorvianti la Giustizia. Ma dalla procura venne proposta impugnazione e la Suprema Corte annullò l’assoluzione con rinvio alla corte d’Appello che questa volta, naturalmente in diversa composizione come vuole la legge, ritenne sufficienti le prove a carico. Nuovo ricorso da parte di tutte le parti, e oggi la Suprema Corte ha respinto i ricorsi: così confermando la condanna a 16 anni di reclusione.
“Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, prescrive, come è a tutti noto, l’art. 533 del Codice di procedura penale. E allora? Allora ancora una volta ha colpito quella maledetta disposizione (artt. 570 e 593 dello stesso Codice) che dal 2006 prevede che il pubblico ministero possa impugnare anche le sentenze di assoluzione. Disposizione introdotta dopo una sentenza della Corte costituzionale che, con motivazione per più versi e da più parti criticata, aveva abrogato l’allora vigente ininpugnabilità delle assoluzioni per motivi che non fossero di legittimità. Disposizione che non di rado determina situazioni kafkiane come questa: essendo vistosamente incompatibile con i canoni di guida e garanzia “in dubio pro reo” e “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Se uno viene assolto è assolto e basta in tutto il mondo. In tutto il mondo meno che da noi. E per far questo il resto del mondo scomoda addirittura, guarda caso, la preclusione processuale del “ne bi in idem”. E dunque solo da noi accadono cose così strazianti, che uno possa oggi sentirsi dire “sei innocente” e domani “sei colpevole” da magistrati ammantati della stessa toga e con la stessa espressione solenne sul volto, perché l’espressione non cambia tra chi comprende e chi crede di aver compreso. Dunque solo da noi accadono i casi Sollecito e Knox, i casi Mannino, Carnevale, Aquila, Sofri, Penati, Girasole, Pacciani e chi più ne ha più ne metta. Solo da noi il pubblico ministero può continuare a difendere la propria ipotesi accusatoria anche quando un giudice l’ha smentita motivatamente con sentenza di assoluzione, solo da noi quel pm può perseverare per anni, e sulla pelle degli altri: cioè di persone. Solo da noi la legge pretende che i magistrati dell’impugnazione giudichino ex ante, cioè mettendosi nei panni del giudice impugnato e chiudendo gli occhi sul resto del quadro processuale. E solo da noi si continua a non scandalizzarsi più di tanto di fronte allo spettacolo, al minuetto del ti assolvo, ti riassolvo, no anzi come non detto, visto che dobbiamo rifare il processo, questa volta ti giudico responsabile. E, conseguenza non trascurabile: ti rieduco con quella pena della galera – scusa ma è l’unica a disposizione – che l’Europa da anni ci contesta come “disumana e degradante”. Però, siccome non si sa mai, ti lascio quei 16 anni che – devi darmene atto, caro condannato – è una pena irrisoria rispetto alla gravità dell’efferato delitto che, secondo me, hai commesso: dunque non lamentarti.
Perché accade tutto ciò? Di una riforma, che preveda anche una formazione professionale più seria, c’è bisogno, anzi urgenza. Affinché un’assoluzione resti assoluzione per sempre, e i giudicanti dei successivi gradi non siano costretti a transustanziarsi per poter giudicare ex ante: ovvero come fosse la prima volta, come se l’assoluzione e le sottese motivazioni non fossero mai esistite, chiuse alla realtà esterna proprio come gli antichi eunuchi stavano chiusi nell’harem. E’ urgente una riforma profonda per una cultura della prova che ai nostri giorni non sempre brilla, perché ancora oggi non di rado si continua a giudicare sulla base della sensazione, del “secondo me”, intuendo o pensando di intuire in relazione alla fisiognomica, al comportamento processuale ed extra-processuale, perfino alle caratteristiche socio-esistenziali, al muso e allo sguardo non paffuti e sorridenti, ma invece affilati e algidi. O al grado di compostezza e di dolore delle vittime.
Vogliamo metterci per un attimo nei panni dei supremi giudici, e tentare di immaginare oggetto e spessore delle loro discussione e dei loro interrogativi in vista della decisione presa sul caso Stasi? Sì è vero, è stato assolto in primo grado e poi anche nel primo processo d’appello con valutazioni più o meno motivate, ma per noi non deve rilevare, ci mancherebbe altro, per legge dobbiamo giudicare ex ante. Sì è vero, le ragioni dell’assoluzione non appaiono proprio abnormi, ma sicuramente sono opinabili: e allora? Sì è vero, oggi lo stesso procuratore generale di udienza ha richiesto l’annullamento della sentenza perché le prove sarebbero state mal governate, per di più in assenza di un movente ragionevole: e allora? “E allora”, ex ante un cavolo, bando ai sofismi e scendiamo dalla luna, verrebbe da rispondere. Nella realtà la storia infinita di questo processo è fitta solo di contraddizioni. Perché continuo a guardare sotto il tavolo, chiedendomi dove mai sia finito l’al di là di ogni ragionevole dubbio? Lo ripeto ancora a scanso di equivoci: c’entra il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e non i magistrati suoi celebranti. Attendiamo tutti con ansia di poter leggere la motivazione della decisione di Cassazione sul caso, ma credo che essa sia assolutamente prevedibile: diranno che l’assenza di tracce di sangue sulle scarpe fa piazza pulita di qualsiasi ipotesi alternativa; diranno che la frequentazione da parte dello Stasi di siti pornografici e le modalità del litigio, ad essa frequentazione verosimilmente collegato, appartengono a grave perversione psicopatologica e costituiscono il movente; che infine la sentenza di condanna della seconda corte d’Appello appare logicamente coerente con tutte le risultanze probatorie. Quali? Quelle che elencheranno minuziosamente ma solo per nome, come da indice, essendo impraticabile un reale controllo del loro peso valoriale. Una motivazione più o meno apparente, insomma. Questo perché – senza volerci attaccare a suor Gertrude e al solito “guazzabuglio del cuore umano” – nel campo delle prove logiche del processo indiziario non tutto è sempre sondabile e confrontabile e comprovabile e collegabile al di là di ogni ragionevole dubbio.
[**Video_box_2**]Non spiegheranno – solo perché non è spiegabile se non con mere congetture – come Stasi, per quanto si sa al primo litigio e comunque mai segnalato per condotte aggressive, avrebbe potuto perdere completamente le staffe per un motivo assolutamente inadeguato, quale che esso sia tra quelli sospettati dall’accusa, e massacrare mortalmente Chiara con dolo perdurante nella sua elevata intensità, e aggravare le lesioni spingendone il corpo giù per le scale e poi, recuperata freddezza in pochi attimi, inscenare il ritrovamento e tutto il resto. Né potranno spiegare in modo soddisfacente del come e perché i magistrati delle due prime sentenze di assoluzione avrebbero preso quell’abbaglio. E perché avrebbe preso ieri lo stesso abbaglio un autorevole ed esperto pm di udienza, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna.
Non è ammissibile che tutto ciò possa ripetersi. Ecco perché a me pare che sia soprattutto un problema di cultura e che s’imponga una radicale e urgente riforma giudiziaria. Cultura del rispetto della dignità umana che, se sussistente, non può che impedire compressioni di diritti fondamentali sulla sola base di personali intuizioni. Cultura della prova e dei suoi limiti. Cultura del confronto e del riguardo per opinioni e giudizi diversi. Cultura insomma.
Mi auguro che Alberto Stasi sia colpevole. Il contrario sarebbe terribile per tutti, compresi – lo accenno per i fortunati credenti – quelli che non ci sono più e gli volevano bene.
Il Foglio sportivo - in corpore sano