Da moralizzatore a moralizzato, la parabola di monsignor Mogavero
Palermo. La notizia è arrivata l’altroieri a tarda sera. Turbando gli ambienti ecclesiastici, siciliani e non. Il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, uno dei prelati italiani più presenti sulla scena mediatica, nonché uno degli esponenti di punta dell’episcopato progressista, è indagato dalla procura di Marsala per appropriazione indebita. A Mogavero si contesta di essersi appropriato di circa 180 mila euro, con accredito di somme sul proprio conto corrente e di assegni tratti in proprio favore dai conti correnti intestati alla diocesi di Mazara, i cui conti presenterebbero più di un punto oscuro. La chiesa siciliana si trova di nuovo a fare i conti con vicende giudiziarie che girano attorno al denaro, come quella che travolse anni fa la vicina diocesi di Trapani, all’epoca retta dal vescovo Francesco Miccichè. Ironia della sorte, allora, per far luce sulla vicenda, il Vaticano spedì a Trapani proprio monsignor Mogavero come visitatore apostolico per indagare su un buco da un milione di euro. Indagini che si chiusero con un dossier che indusse il Vaticano, regnante Benedetto XVI, a rimuovere Miccichè, che a quel punto denunciò il “collega” Mogavero per diffamazione e violazione del segreto istruttorio.
Da accusatore monsignor Mogavero ora finisce tra gli accusati. O più correttamente tra gli indagati. Anche se il suo legale ha subito spiegato che le indagini “attengono ad anomalie nella gestione dell’economato della curia rilevate e denunciate alla Procura dallo stesso Vescovo lo scorso anno”. E lo stesso difensore, dopo aver ricordato come fu proprio Mogavero a sollevare i responsabili dell’economato della diocesi dopo una verifica sul loro operato, ha smentito la circostanza dei soldi che sarebbero transitati sul conto corrente del prelato, parlando di “sviste degli inquirenti”: la somma incriminata sarebbe andata a un fornitore e non al vescovo. “Attraverso l’iban tale accertamento lo avrebbe potuto fare anche un ragazzino di terza media”, ha detto a Tv2000 l’avvocato Stefano Pellegrino, sostenendo insomma che ci si trovi di fronte a un clamoroso “errore di redazione della scrittura contabile effettuata da altri”. I soldi infatti sarebbero stati regolarmente accreditati al conto corrente dell’artista che ha realizzato delle opere nella chiesa di Pantelleria. E questo secondo i legali del prelato “è risultato provato, accertato e documentato”.
[**Video_box_2**]Resta, però, in attesa che l’inchiesta appuri definitivamente come sono andate le cose, la scomoda posizione di indagato.
Scrivono i legali del vescovo: “Può capitare che per fare emergere tutta la verità e fare pulizia, si debba assumere, anche se temporaneamente, per esigenze di copione processuale, la veste di indagato”. Veste spesso sufficiente per il partito dei moralisti a rappresentare una sorta di lettera scarlatta. Anche se destinata, magari, a sfumare nel nulla. E non c’è moralizzatore che non rischi di finire moralizzato. Lo sperimenta a sue spese il vescovo icona del cattolicesimo progressista – note le sue prese di posizione in favore delle unioni civili degli omosessuali, il suo possibilismo sulla riforma del celibato dei sacerdoti e le sue accorate battaglie a difesa dei migranti – lo stesso che tiene una rubrica sul Fatto quotidiano, su pagine assai care al suddetto partito del moralismo moralizzatore. Quello che pretende dimissioni anche per gli avvisi di garanzia. Dimissioni che il monsignore, con trascorsi ai piani altissimi della Cei, auspicò per Silvio Berlusconi ai tempi del Rubygate e non chiese ma considerò possibili per Dino Boffo “non certo per ammissione di colpa, ma per il bene della chiesa e del giornale”, quando l’allora direttore di Avvenire si trovò al centro della nota tempesta mediatica. Quella che nell’Italia affamata di scandali può inghiottire pure i moralizzatori. Magari anche solo per un iban sbagliato.
Il Foglio sportivo - in corpore sano