L'ossessione delle classifiche di fine anno e l'ansia di conoscerci

Simonetta Sciandivasci
Arrivano gli elenchi che redattori, direttori, autori tv, casalinghe/i di Voghera delocalizzati a Milano e intervistati preferibilmente in Galleria Vittorio Emanuele affastellano nel mese di dicembre, a fornire un gusto a chi gusti e preferenze non ha voluto averne, né esprimerne

Lo sanno bene gli apatici della scelta, asinelli di Buridano (ricordate l'apologo del ciuco che, posto davanti a due mucchi di fieno, non sa decidere quale addentare e, nel dubbio, muore di fame?) bramosi di tutto e quindi di niente, che a fine anno verranno perdonati per i 365 giorni di pascolo nell'ignavia. Arrivano gli elenchi che redattori, direttori, autori tv, casalinghe/i di Voghera delocalizzati a Milano e intervistati preferibilmente in Galleria Vittorio Emanuele affastellano nel mese di dicembre, a fornire un gusto a chi gusti e preferenze non ha voluto averne, né esprimerne.

 

Mania, quella per le classifiche, che quando disgiunge immediatamente ricongiunge: a questo servono le controclassifiche, che raccolgono e impilano le preferenze più raffinate, meno mainstream, meno dominanti, ma che pure, a loro volta, taglieranno fuori altri emarginati, così che ci sarà bisogno di un'altra lista che li includa e poi ancora, fino a quando arriverà l'anno nuovo e l'esigenza di dare un senso a quello vecchio sarà surclassata dalla fregola di pronosticare il futuro (sulla Stampa, la top 5 dei motivi per cui non dobbiamo temere il 2016 è stata redatta a 4 giorni dal suo debutto: al primo posto c'è l'incremento di musulmani che prendono le distanze dai jihadisti).

 

Il 2015, figlio del tempo delle lotte contro l'idea che diritti e doveri si attingano dai ruoli e dal sangue; del fare l'amore, la famiglia, i figli a ognuno come gli va; del #lovewins che ha lasciato l'Italia colpita al cuore e nuda come sempre; dell'abbattimento indiscriminato dei discrimini, si tradisce e cede, come i suoi predecessori, alla mania di catalogare il meglio e il peggio, fiancheggiare le gerarchie, archiviare il passato sotto etichette precise. I milanesi intervistati dalla troupe di “L'Aria che tira” hanno eletto come personaggi dell'anno Belen al terzo posto, Matteo Renzi al secondo e Papa Francesco al primo (i terroni dei “Comizi d'amore” di Pasolini avrebbero riservato, probabilmente, risposte meno da sudditi del canone Rai). Ha importanza che la medesima lista, in mano a esperti interpellati nei loro studi e non durante un pomeriggio di shopping, sarebbe stata diversa? Dobbiamo ancora interrogare le classifiche come fossero il distillato di quello che siamo o chiederci perché ci ostiniamo a comporle, sebbene ci scontentino, ci scolleghino dai nostri simili, facendoci sentire migliori di loro (noi avremmo detto Samantha Cristoforetti, mica Belen; migranti, mica Renzi; al Baghdadi, mica Papa Francesco, vero?), sebbene perpetrino cliché e delineino un paese reale assai irreale (bufera su La Lettura del Corriere, per aver pubblicato un elenco dei migliori libri del 2015 senza autrici e controffensiva fulminea: centinaia di tweet con l'hashtag #lemiescrittrici2015 – e giù di elenchi - per dimostrare che i lettori reali sono un pugno, sì, ma contro il sessismo).

 

[**Video_box_2**]"Ho finito con l'ammettere che quei sogni non erano stati vissuti per essere sogni, ma sognati per essere testi, percorsi tortuosi che ogni volta mi allontanavano dal riconoscimento di me stesso", scrisse Georges Perec in "Pensare/ classificare" (1989), raccontando l'ossessione che lo aveva preso di annotare e classificare la sua attività onirica. Se proprio ci teniamo ad avvicinarci al riconoscimento di noi stessi, allora, dobbiamo forse provare a cercarci fuori dalle classifiche, dove si accatastano i momenti più fessi, le letture di cui ci vergogniamo, le cose sognate e poi viste, le cose che Fazio e Saviano non avrebbero mai e poi mai inserito negli elenchi di "Vieni via con me".

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