Un anno dopo Charlie, il pol. corr. uccide la libertà di espressione
Un anno dopo i disegni proibiti, gli spari improvvisi, la redazione assalita e i dodici redattori e vignettisti di Charlie Hebdo giustiziati al grido di Allahu Akbar da un commando jihadista, l’occidente non riesce ancora a rispondere a una domanda semplice: je suis Charlie Hebdo o je suis Henriette Reker? Ovvero: siamo tutti solidali con la tragedia della libertà d’espressione sgozzata dal fondamentalismo di matrice islamista o siamo tutti dalla parte del sindaco di Colonia e del suo accorato appello a non provocare e a fare i bravi, e fare soprattutto le brave, per prevenire assalti futuri come quelli orrendi e ormai noti registrati a Colonia la notte di Capodanno? Un anno dopo la strage di Charlie Hebdo – e un anno dopo le lacrime veloci e svogliate che hanno solcato per qualche secondo i volti dei più grandi leader politici mondiali – bisogna riconoscere che la fatwa lanciata dall’islam fondamentalista contro la libertà d’espressione ha acceso una forma subdola di totalitarismo culturale che ha imposto all’occidente un codice di comportamento simile a quello proposto dal sindaco di Colonia alle donne della sua città: se non volete finire male, tappatevi la bocca e cercate di adottare un codice di comportamento che vi consenta di prendere le giuste precauzioni per evitare di trovarvi un giorno con un dolce Ak-47 puntato sul vostro cervello libero.
Un anno dopo la decapitazione di Charlie Hebdo, l’infausto regime imposto dall’islamicamente corretto ha portato a una serie di conseguenze clamorose. La tendenza a marchiare con lo stampo a fuoco del fascista islamofobo chiunque si azzardi a ragionare sulla relazione che esiste tra violenza e interpretazione del Corano (e i vicini di casa dei killer di San Bernardino che non denunciarono i futuri killer per paura di essere considerati islamofobi ricordano da vicino le donne di Colonia che, per timore di essere considerate xenofobe, hanno aspettato giorni prima di denunciare le violenze subite la notte di Capodanno). L’autocensura degli intellettuali che salvo rare eccezioni si occupano di tutto pur di non occuparsi di islam (cercasi un Saviano a Teheran o a Riad). L’autocastrazione dei grandi giornaloni che pur di non offendere i musulmani accettano di pubblicare buchi bianchi nelle proprie pagine (due giorni fa il New York Times è uscito in Pakistan con due pagine bianche pur di non far leggere ai suoi lettori le storie di alcuni blogger laici uccisi perché criticavano l’islam). L’indifferenza di fronte a casi come quello del Jyllands-Posten che lo scorso anno ha scelto di ripubblicare la stessa prima pagina di dieci anni prima (quelle con le vignette di Maometto contro le quali manifestò con violenza una parte del mondo islamico) con dodici spazi vuoti al posto delle vignette, “perché la violenza funziona e noi ora abbiamo paura”. Diceva Christopher Hitchens in un gran discorso sulla libertà d’espressione nel 2011 che “The right of others to free expression is part of my own”, che il diritto degli altri alla libera espressione è parte della mia stessa libertà d’espressione, che la freedom of speech consiste nell’essere in grado di dire alla gente ciò che potrebbe non voler sentire, e che se la voce di qualcuno viene messa a tacere sono io che mi sono privato di un diritto fondamentale che è il diritto di ascoltare chi non la pensa come me.
[**Video_box_2**]Un anno dopo la strage di Charlie ci saranno molti ricordi, molte fiaccolate, molte lacrime e molti status commossi su Facebook. Ma a un anno dalla decapitazione dei dodici redattori e vignettisti del settimanale satirico francese bisogna fare i conti con la realtà. E la dura realtà è che l’occidente ha scelto di privarsi, per dirla alla Hitchens, di un suo diritto fondamentale. Che non è solo quello di ascoltare chi non la pensa come me. Ma è che anche quello di impedire che il politicamente corretto ottenga un risultato drammaticamente simile a quello pensato dagli sgozzatori di vignettisti: uccidere, semplicemente, la libertà di espressione.
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