Quel filo rosso che lega i dolori petroliferi arabi ai polmoni della finanza italiana
Roma. Gli stati arabi, dall’Arabia Saudita agli Emirati Uniti, per contrastare il calo degli introiti derivanti dalle rendite petrolifere si trovano nella scomoda posizione di dovere introdurre inedite e profonde riforme dell’economia, dall’imposizione di tasse alla revisione della spesa pubblica fino alle privatizzazioni di aziende statali, con la probabilità di contrarre o di non incrementare gli investimenti dei fondi sovrani in asset cari ai governi occidentali amici. Più che un processo di austerity alla europea, per le autocrazie monarchiche mediorientali ciò significa soprattutto rompere unilateralmente quel tacito accordo sociale stretto con la popolazione per cui essa, grazie ai proventi del petrolio, riceve sia i sussidi per l’acquisto dei beni primari sia l’impiego nella pachidermica e disfunzionale macchina burocratica e militare. In seguito all’annuncio di tagli alla spesa e ai sussidi, l’Arabia Saudita ha comunicato sull’Economist l’intenzione di quotare in Borsa la Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo – valutata approssimativamente tra mille e duemila miliardi di dollari – e principale fonte di denaro e potere della casata reale dei Saud, al governo dal 1926. Mohammed bin Salman, vice principe della corona e ministro della Difesa, sta gestendo le riforme economiche ascoltando i consigli dell’americana McKinsey. Mohammed, 29 anni, secondo un’informativa dell’agenzia d’intelligence tedesca, conduce una “politica d’intervento impulsiva” nel regno islamico sunnita, per non dire “spaccona”. Il rischio è che introdurre princìpi di mercato in un contesto dove la legalità non è assicurata concentri la ricchezza nelle mani dell’élite al potere, sollevando rivolte come in Libia e Siria nel 2011.
L’Arabia Saudita sta programmando di tornare a emettere bond sui mercati internazionali dopo quindici anni di assenza e sta vendendo asset miliardari per impiegarli a sostegno della propria economia sulla quale grava un deficit di 130 miliardi di dollari nel bilancio pubblico, appesantito dalla guerra per procura in Yemen e in Siria. Altri paesi del Golfo stanno concentrando gli sforzi nello stesso senso: gli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, hanno deciso di tagliare i sussidi ai carburanti, potrebbero per la prima volta imporre un’Iva leggera sui beni di consumo e dovranno ristrutturare un sistema bancario frantumato dalle migliaia di bancarotte societarie del 2015. Le contingenze negative che condizionano gli stati rentier arabi, all’inizio di una drammatica conversione del modello economico, avranno conseguenze anche per l’Italia. L’emirato di Abu Dhabi, secondo azionista di Unicredit attraverso il fondo Aabar (6,43 per cento), può sopportare ribassi del Brent, il greggio del mare del Nord usato come riferimento del mercato, fino a 36 dollari al barile, conservando un modesto surplus, secondo i calcoli National Bank of Abu Dhabi.
[**Video_box_2**]Ieri il Brent ha toccato i 33 dollari al barile e, secondo Morgan Stanley, potrebbe arrivare a 20 dollari in forza di un rapido apprezzamento del dollaro. In una situazione del genere si abbassa la soglia di tolleranza di Abu Dhabi nel constatare la difficoltà di ottenere un ritorno dagli investimenti. In questo caso Unicredit, come sottolineato ieri in un’analisi del Financial Times, rappresenta un caso critico perché serviranno almeno due o tre anni di crescita economica per portare a una riduzione degli 84,4 miliardi di crediti deteriorati in pancia alla banca; il fardello più corposo nello sfibrato settore del credito italiano. Ieri la Borsa ha punito Mps e Carige. Secondo Barclays, non sarà nemmeno da escludere la richiesta ai soci di un altro aumento di capitale da 7 miliardi di euro. Circostanza che l’ad, Federico Ghizzoni, ha negato e che di fatto avrebbe dovuto essere stata schivata mediante i risparmi derivanti dalla riduzione dell’organico del gruppo in Europa – 12 mila esuberi entro il 2018 – e dismissioni. Ieri è stato raggiunto un accordo vincolante per la cessione di Ukrsotsbank ad ABH Holdings di Alfa Group, gestito dall’oligarca russo-israeliano Mikhail Fridman. Complice il prolungato tracollo petrolifero, i fondi sovrani hanno proseguito l’assorbimento di liquidità che da gennaio a settembre del 2015 li ha portati a ritirare almeno 100 miliardi di dollari dal mercato, secondo Morgan Stanley. “Negli anni l’espansione degli investimenti è avvenuta di pari passo con l’andamento del petrolio, ora non penso a dei massicci disinvestimenti, nonostante l’esigenza interna degli stati petroliferi di mantenere la pace sociale, piuttosto credo che l’apporto di risorse da parte dei fondi sovrani non aumenterà in modo significativo”, dice al Foglio Alessandro Penati, economista dell’Università Cattolica di Milano. Circostanze che potrebbero minare l’ambizione dichiarata dalla Cassa depositi e prestiti nel suo piano industriale quinquennale di diventare “calamita” per i soldi dei fondi sovrani.
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