Chi vuole l'Italia come stato cuscinetto
Sul confronto in atto tra avversari e sostenitori degli accordi di Schengen aleggiano diversi equivoci. Il principale riguarda ciò che veramente implicarono per le frontiere. Pochi oggi ricordano che lo “spazio unico” fu voluto per facilitare la circolazione delle merci nell’Unione europea, non abolendo, ma prevedendo che i controlli fatti in precedenza ai confini potessero avvenire in una più larga fascia a loro ridosso. Al momento in cui si raggiunse l’intesa per demolire le barriere fisiche che ancora dividevano fisicamente gli stati europei, inoltre, si chiarì in modo inequivocabile che all’apertura interna avrebbe corrisposto un’ermetica chiusura dell’Europa comunitaria verso l’esterno. Si parlò a lungo, non a caso, di un’Europa fortezza. Schengen non abbatté quindi ogni dogana. Quelle esterne sopravvissero. Si allestì però un sistema a livelli di responsabilità differenziati, nel quale i paesi più “interni” dello spazio Schengen finirono col dipendere per il controllo dei flussi migratori da quelli che avrebbero presidiato le frontiere esterne dell’area. Va sottolineato che l’Italia fu tenuta per quasi due anni fuori dal meccanismo cui aveva aderito, perché i nostri partner non si fidavano di noi. Temevano che avremmo fatto passare frotte di disperati. Per farci ammettere operativamente nel club, fu necessario dimostrare una certa determinazione nel difendere i nostri confini. Fu in queste circostanze, tra l’altro, che il 28 marzo 1997, con Romano Prodi a Palazzo Chigi, si verificò l’affondamento nel Canale d’Otranto della motonave albanese Kater-I Rades, in cui perirono 108 persone. Se non si tiene conto di queste premesse, è impossibile capire il conflitto di interessi che dal 2011 ci contrappone ai partner europei. Sono in effetti accadute tre cose fondamentali, che hanno sconvolto lo scenario in cui gli accordi di Schengen presero forma. La prima: l’Africa è cresciuta economicamente, permettendo a un maggior numero di persone di mettersi in viaggio per venire qui. La seconda: è scomparsa l’azione di filtro svolta per conto nostro dai regimi che sono stati travolti dalle Primavere arabe. Dulcis in fundo, nella battaglia che si è aperta per cambiare l’ordine politico sulle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo, alcuni attori hanno iniziato a usare i flussi migratori come armi. In questo esercizio, si sono distinti specialmente il governo non riconosciuto di Tripoli e la Turchia, tra l’altro alleati. Gli scopi perseguiti sono piuttosto evidenti. Gli islamisti del Congresso nazionale libico vogliono il nostro riconoscimento e un appoggio concreto nel negoziato che mira a ricomporre l’unità del loro paese. Mentre il presidente Erdogan cerca di estorcere denaro a un’Europa che vorrebbe comunque indebolire anche per non farsi tagliare fuori dai Balcani.
Rispetto a questi attacchi non convenzionali, la tentazione dei nostri partner sembra quella di guadagnare tempo, alzando muri che tendono a trasformare gli stati periferici dell’area Schengen in altrettanti cuscinetti. Non possiamo assecondare questo disegno, perché ci soffocherebbe, anche se sarà difficile contrastarlo senza dare qualche prova di intransigenza, ad esempio negoziando nuovi accordi di riammissione con gli stati sorgente africani, come peraltro si sta iniziando a fare.
[**Video_box_2**]La nostra posizione geografica non ci favorisce. Se gli accordi di Schengen venissero meno, i migranti continuerebbero ad arrivare, ma non potremmo più invocare alcun sostegno dai nostri partner, neanche nella direzione di una vera europeizzazione della difesa delle frontiere esterne dello spazio unico. E dovremmo far da soli, in un contesto che non è più quello in cui a Giulio Andreotti fu possibile rinchiudere in uno stadio e poi rimpatriare nell’agosto 1991 i ventimila albanesi che avevano raggiunto la Puglia sulla decrepita motonave Vlora. Per fare un’operazione simile sulla scala richiesta dai flussi attuali, oggi occorrerebbe sfidare anche Papa Francesco. Chi se la sentirebbe?
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