Le menzogne di chi nega la guerra
Tutti dicono che la libertà d’insegnamento è sacra, che Panebianco non è stato contestato ma intimidito, che a Bologna ci sono quattro svitati fermi al 1977 “desiderante” e “anarchico”. Chissà: per via dell’aborto in piazza Maggiore i candidati della lista pazza furono linciati e messi in salvo dai poliziotti, e non erano quattro svitati a tirare di tutto ma un paio di migliaia; comunque ammettiamo pure che il goliardismo come squadrismo travestito, e mantenuto in modo compiacente nel quieto vivere dalle autorità accademiche, sia un fenomeno di infima minoranza. Se lo dice Romano Prodi, sarà vero.
Più importante ancora dell’infame prassi di mettere a tacere chi dissenta da quanto è percepito come politicamente corretto in una comunità ideologica è il punto di coagulo di quella prassi: pensare la guerra è proibito, è indizio di vocazione criminale, anche se a farlo sia un vecchio e intemerato accademico liberale, non un guru neoconservatore. Siamo sicuri di non aver fatto l’occhiolino a questa fantasia malata di quattro svitati in modi diversi e in molti modi? Abbiamo lasciato passare l’idea che la Costituzione metta fuorilegge la guerra. Non è vero, non potrebbe essere vero, visto che le libertà costituzionali sono il portato di una guerra. L’articolo 11 ripudia la guerra come offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, optando sempre in prima battuta per la diplomazia, ma la guerra come difesa dei confini nazionali, delle alleanze tra democrazie, dell’ordine mondiale violato da aggressioni e pressioni militari non è fuori legge. E’ una circostanza della storia di cui la Repubblica è figlia, insieme con la sua Carta fondamentale. Abbiamo avuto la trahison des clercs, il pacifismo come ideologia e falsa coscienza, si sa. Abbiamo diffuso l’idea che i civili morti sotto le bombe o per le altre azioni belliche sono un crimine, e naturalmente la filosofia dell’inazione conseguente a questo pregiudizio ha portato a centinaia di migliaia di civili sterminati con ogni mezzo, convenzionale e non convenzionale, al di fuori della legge dolorosa ma necessaria della guerra guerreggiata (basta guardare a quanto è accaduto in Siria, esodo compreso, come frutto della riluttanza a impegnare forze militari di intervento e stabilizzazione ad argine di una spietata guerra civile e inter-religiosa). Abbiamo imputato alla politica e alla guerra, che in certi casi sono notoriamente sinonimi, la logica della menzogna, della volontà di dominio su materie prime e territori, dell’intolleranza e dell’incapacità di dialogo per la pace: ma tutti sanno o dovrebbero sapere che è questa la vera menzogna, che l’ordine e la pace, la salvaguardia delle libertà di culto, delle civiltà dichiarate estinte dai tagliagole, dei tesori della memoria archeologica e storica, non sono conseguibili senza l’impegno responsabile delle diplomazie e, quando inevitabile, degli stati maggiori e degli eserciti, marina e aviazione comprese.
Il caso Panebianco è due casi: la libertà di dire ciò che si pensa e di insegnarlo senza essere intimiditi con la violenza, primo caso, e la necessità di una cultura responsabile da cui si deve escludere ogni irenismo compiacente, ogni disconoscimento della cruda verità della storia e della politica, guerra compresa, secondo caso. Non ce la si può cavare chiedendo per Panebianco la libertà di cattedra, dica pure il prof. la sua opinione, e al tempo stesso mettendo in cattedra una teoria dei diritti umani e della pace che fa della guerra una menzogna criminale e, inevitabilmente, del prof. un suo banditore.
[**Video_box_2**]La Libia è a qualche centinaio di miglia dalle nostre coste. Si sta radicando, a parte una guerriglia settaria e faziosa di antiche origini tribali, una delle incarnazioni di uno stato califfale islamico che scorrazza il suo impeto di morte a Sirte ma anche a Parigi e altrove. Invece di dire bellurie senza conseguenze a proposito della generazione Bataclan e del nostro modo inoffensivo di vita, il prof. ha chiesto nei suoi interventi e nelle lezioni di riflettere in termini di teoria della politica e di conoscenza storica a proposito di qualcosa di fin troppo realistico: l’approssimarsi di una guerra necessaria in Libia e la assoluta impreparazione psicologica e altro della nostra nazione a comprenderne le basi e l’urgenza. Le due cose sono collegate a doppio filo. Difendere la libertà di Panebianco e il pacifismo ideologico che danna come criminale il discorso pubblico intorno alla guerra è impossibile.
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