Marcello de Cecco

Marcello de Cecco, un polemico eurocritico che mancherà

Stefano Cingolani
Nato a Lanciano nel 1939, laureato a Parma e poi a Cambridge, nascondeva dietro la sua aria low profile, lo sguardo ironico, la battuta pronta e dissacrante, un’acuta capacità di coniugare la teoria con la storia, la società, la politica.

    La scomparsa di Marcello de Cecco lascia un vuoto nella letteratura economica italiana e un buco nell’analisi della politica economica.

     

    Nato a Lanciano nel 1939, laureato a Parma e poi a Cambridge, nascondeva dietro la sua aria low profile, lo sguardo ironico, la battuta pronta e dissacrante, un’acuta capacità di coniugare la teoria con la storia, la società, la politica. A lungo collaboratore scientifico della Banca d’Italia, oltre che consulente del Fondo monetario internazionale, ha esordito con lavori sulla moneta (uno dei maggiori conoscitori del gold standard), consapevole anche lui come lo storico Marc Bloch che essa non sia solo un numerario o una riserva di valore, ma anche “barometro di movimenti profondi e nello stesso tempo causa di non meno formidabili conversioni delle masse”. Durissimo su come l’euro è stato introdotto e gestito dai governi (a cominciare da quelli italiani) non lo ha mai rinnegato, anzi ha difeso il progetto della moneta unica come premessa per una più stringente unità europea. Pur essendo tra coloro i quali avrebbero preferito che l’Italia risanasse davvero i conti pubblici prima di entrare nell’euro, si rendeva conto, come ha scritto in un suo saggio, “che solo l’abolizione di ogni possibilità di arbitraggio tra le valute forti europee e la lira, mediante la partecipazione alla moneta unica fin dall’inizio, sarebbe riuscita a impedire che si formasse un circolo vizioso di svalutazioni e deprezzamento del debito pubblico italiano”. In sostanza, se la lira fosse rimasta fuori, soprattutto dopo l’ingresso anche della Spagna, sarebbe diventata l’unico bersaglio della speculazione. Altro che guerra dello spread, si sarebbe prodotto nel 2001 un altro crac valutario come quello del 1992.

     

    [**Video_box_2**]Negli anni delle reprimende più dure della Germania contro l’Italia, la Grecia, i Pigs, ha riaperto una vecchia ferita ricordando che i rigorosi tedeschi non hanno pagato i debiti di guerra e hanno bellamente usufruito di condizioni di favore. Eppure in lui non c’era nessun riflusso germanofobo o nazionalista. Ha criticato da sinistra le politiche di austerità, lui che nel 2007 ha fatto parte del comitato promotore del Partito Democratico, tuttavia ha sempre attaccato la voglia di tornare allo spendi e spandi. Recentemente ha difeso gli sforzi di Carlo Cottarelli che è stato suo allievo. De Cecco era convinto che per uscire dalla crisi bisognasse aumentare la domanda, anche quella per consumi, ma ha sempre spezzato la sua lancia contro il declino della produttività, del quale sono responsabili certo le rigidità sindacali, ma soprattutto gli industriali che privilegiano i dividendi agli investimenti. Un contributo critico importante Marcello de Cecco l’ha dato all’analisi delle privatizzazioni. Anche qui con vis polemica e acutezza analitica. Non era un liberista, quindi a suo avviso la proprietà pubblica dei mezzi di produzione è altrettanto legittima di quella privata; il problema semmai era il capitalismo di stato all’italiana per rispondere a crisi ed emergenze create dai fallimenti dei privati. La crescita a dismisura dell’Iri e il suo precipitoso smantellamento sono segnati dallo stesso peccato capitale. Gli sforzi per ridurre il debito pubblico, diventato all’improvviso dal più chiuso in una dimensione nazionale al più aperto alla finanza mondiale, la disinflazione, l’arrivo di capitali dall’estero, aveva creato negli anni ’90 le condizioni propizie a un salto di qualità che non è avvenuto. 

     

    Secondo de Cecco “è stata soprattutto la mancanza di capacità progettuale da parte delle grandi imprese italiane, la loro indisponibilità a presentare proposte di riorganizzazione del sistema nazionale d’impresa consone alla enorme capacità di risparmio espressa dal paese in questi anni a impedire che le risorse non spese dagli italiani venissero utilizzate per una trasformazione del sistema produttivo proprio mentre nel resto del mondo tale trasformazione stava avvenendo a grande velocità”. De Cecco non era un declinista e non ha mai sottovalutato le potenzialità economiche dell’Italia, ma era micidiale nell’individuare e analizzare le occasioni perdute. E’ questa, forse, la lezione che lascia a chi non è mai stanco di “prediche inutili”.
    Stefano Cingolani