Perché la retorica femminista-marxista sull'8 marzo non funziona più
Come ogni 8 marzo, saremo sommerse di retorica femminista-marxista, a cominciare dal falso storico a cui dobbiamo questa ricorrenza. A cui vorrei rispondere dicendo che oggi il principale ostacolo all’uguaglianza di genere è chi stenderà il prossimo carico della lavatrice. Le femministe, negli ultimi decenni, hanno scelto battaglie spesso discutibili, come il rifiuto del sesso o delle sue rappresentazioni – sempre forme di dominazione dell’uomo sulla donna, anche quando questa è consenziente, e su problemi fondamentali quali nominare al maschile gli uragani o bruciare casa di barbie per denunciare l’ideologia nazista della Mattel, con l’assunto che è nel linguaggio che si realizza il patriarcato, ovviamente seminato dalle pericolose multinazionali e da media asserviti al capitale. Guidate dal marxismo, hanno spiegato che era il capitale a costringerci alla subordinazione, impassibili davanti al fatto ovvio che la correlazione fra crescita economica e condizione femminile è univoca, e che di crescita economica senza capitalismo è difficile vederne.
Davanti a queste degenerazioni, è molto facile che le persone di buon senso siano allontanate da questioni di genere. Ma il fatto che la spiegazione prevalente di un problema sia sbagliata non fa sparire un problema. E andremo poco lontano rispondendo alle femministe con un trucco Jedi: “Queste non sono le discriminazioni che stai cercando”.
Prendiamo l’esempio classico, il differenziale fra salari delle donne e degli uomini: persino negli Stati Uniti le donne guadagnano il 77 per cento del salario percepito dall’altra metà del cielo. Ora, secondo il più sistematico studio in merito, dipende in gran parte da scelte personali. La causa principale è quella che si chiama gender occupational segregation: è ancor meno probabile che le donne studino materie scientifiche o economiche, è meno probabile che diventino avvocati, medici o manager, mentre è più probabile che diventino insegnanti, infermiere o segretarie. E questo si riflette nei salari futuri, ma per occupazioni simili, il divario è del 5 per cento. Le donne inoltre esprimono una preferenza per lavori più flessibili, per maggiori fringe benefits: tenendo conto di questi aspetti e non solo del salario nominale, il gender gap misurato in America da Eric Solberg and Teresa Laughlin scende dal 13 al 3 per cento. Insomma, non è il mercato a discriminare le donne, anzi, per il mercato la discriminazione per motivi diversi dalla produttività non è conveniente, come dimostra il fatto che il wage gap diminuisca progressivamente quanto più le imprese sono esposte alla concorrenza del commercio internazionale.
E qui le persone a cui sta antipatica la Boldrini potrebbero dire alle femministe di tacere, il trucco Jedi ha funzionato e il gender gap è sparito. Ma perché le donne scelgono meno lavori scientifici, o che richiedono meno tempo? La risposta di gran parte del femminismo non funziona.
Quando guarda al colloquio di lavoro dove il potenziale datore di lavoro, invece di interrogarsi sulle competenze, chiede alla candidata trentenne se è sposata, se ha intenzione di fare figli, se ha i genitori vicini per aiutarla, la femminista marxista post-strutturalista vede la lotta di classe declinata con le discriminazioni di genere. Non guardando al fatto che il potenziale datore di lavoro è legittimamente preoccupato dal fatto che una candidata donna, nel momento in cui sceglie di farsi una famiglia, dovrà effettivamente sottrarre più tempo al lavoro. La divisione dei compiti nelle famiglie è ancora iniqua, ma questo non c’entra nulla con il capitale: c’entra con il fatto che gli uomini, in casa, fanno ancora poco.
Secondo l’Istat, “l’indice di asimmetria del lavoro familiare nella coppia in cui lei lavora e ha un figlio fino a sette anni è pari al 70,4 per cento. Quello delle donne che hanno un figlio tra gli 8 e i 12 anni il 72,2 per cento. E se l’asimmetria è diminuita lo si deve più a una riduzione del lavoro di cura delle donne che a un incremento di quella degli uomini”. D’altronde, quasi la metà della popolazione (49,7 per cento) è d’accordo nel ritenere che “gli uomini siano meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”. Ancora, l’interruzione di attività lavorativa per motivi familiari coinvolge il 22.4 per cento delle donne con meno di 65 anni – e sale al 30 fra le madri – contro il 2,9 degli uomini. Il 44,1 per cento delle donne, contro il 19,9 degli uomini, ha dovuto fare qualche rinuncia in ambito lavorativo a causa di impegni e responsabilità familiari o semplicemente per volere dei propri familiari (qui).
La situazione non è unicamente italiana. L’OECD ci mostra come in tutto il mondo le donne impieghino più tempo per lavoro non retribuito rispetto agli uomini: ma anche in questa classifica al negativo l’Italia è fra i primi posti:
Dati: OECD, employement dataset
Insomma, sia il datore di lavoro che la candidata, nella stanza del colloquio, sanno benissimo che se c’è qualcuno che dovrà sacrificare il lavoro per la famiglia – ma anche solo per stirare – sarà lei e non suo marito o un candidato suo concorrente. Questa è una variabile culturale, non economica: non è il mercato che ci costringe a dividere iniquamente il lavoro domestico e le responsabilità legate alla famiglia.
Sin dagli anni Sessanta, le femministe marxiste ci hanno urlato che il privato doveva essere pubblico, e con questo intendevano regolato politicamente. Ma se le discriminazioni sono il risultato di scelte private, non si risolverà criminalizzando chi discrimina queste scelte, chiedendo maggiori tutele giuridiche per le donne, stabilendo salari uguali per legge o regolando il diritto a fare domande personali in un colloquio.
Oggi, 8 marzo, insegniamo a un bambino che le stoviglie pulite e i calzini appaiati li riguardano: non solo una cosa da fare quando una donna glielo chiede, ma una cosa di cui essere responsabili. Così come i figli e tutto quel lavoro non pagato che fa andare avanti una famiglia. E per le donne: non accettiamo questa divisione iniqua, combattiamo in cucina, non in Parlamento. Sheryl Sandberg, chief operating officer di Facebook e attivista per l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro, dice che chi sposiamo è la decisone più importante per la nostra carriera: un partner in grado di condividere gli impegni e supportare le scelte lavorative è più importante di qualsiasi regolamentazione pubblica.
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