Il tazebao della gogna accademica. Inchiesta sui docenti minacciati
Roma. Due giorni fa sono tornati e hanno tentato nuovamente di impedire ad Angelo Panebianco di tenere lezione all’Università di Bologna. Ma stavolta i contestatori sono stati respinti da un cordone di carabinieri. Il politologo aveva già interrotto le lezioni due volte il mese scorso, aggredito e accusato di essere un “guerrafondaio” per i suoi articoli sul Corriere della Sera. Manifesti contro la “casta guerrafondaia”, come recita il tazebao dei collettivi, sono stati appesi negli studi dei docenti che hanno espresso solidarietà a Panebianco, la cui libertà di espressione e di insegnamento (e forse non solo) viene oggi garantita da agenti in borghese posti a sua protezione.
Il video della contestazione al professor Angelo Panebianco
Ma il caso Panebianco non è isolato nelle università italiane. Per motivi diversi, ma sempre in nome di un odio ideologico, ci sono numerosi docenti minacciati e aggrediti nella logica dei cento contro uno e del proporre come soluzione per chi dissente il silenzio, le accuse astiose, i fanatismi aggressivi di chi è armato di parole (per ora).
Siamo andati a cercarli e a parlare con loro. E siamo partiti da quegli intellettuali, giuristi, economisti che hanno fatto del “lavoro” il tema della loro vita, frequentando aule universitarie, convegni, uffici studi di Confindustria, fondazioni, governi. “Se hanno dato una tutela a Panebianco dopo le aggressioni all’università, immaginiamoci cosa significhi per chi si occupa dei diritti del lavoro dopo Ezio Tarantelli, Gino Giugni, Massimo D’Antona e Marco Biagi”. A parlare così al Foglio è Michele Tiraboschi, erede scientifico di Biagi, allievo, amico e collega del professore di diritto del Lavoro assassinato dalle Brigate Rosse il 19 marzo di quattordici anni fa. Per entrambi, Panebianco e Tiraboschi, lo sfondo comune di Bologna, città progressista e indifferente, dove insegna il primo e dove è stato ammazzato il maestro del secondo. Ed è proprio da Bologna che Tiraboschi, autore di “Morte di un riformista”, è stato costretto ad andarsene dopo l’assassinio di Biagi. Ancora oggi, dopo quattordici lunghi anni, Tiraboschi è sotto scorta da parte del ministero dell’Interno. Un professore universitario costretto a fare lezione protetto dalla polizia dal 2002. “Scrivere editoriali sui giornali di un certo tipo, fare consulenza per il governo, redigere progetti sul lavoro, è possibile oggi soltanto grazie alla tutela delle forze dell’ordine”.
E non c’è soltanto Tiraboschi. Succede, come al professor Carlo Dell’Aringa dell’Università di Milano, che arrivino minacce di morte in facoltà per la sua partecipazione al Libro bianco del mercato del lavoro. “Non si è mai appurato chi avesse lanciato quelle minacce”, dice Dell’Aringa al Foglio. Numerosi esperti del lavoro arrivati alla politica dal mondo accademico, come Filippo Taddei, devono oggi muoversi con la scorta (Pietro Ichino è un altro). Ma soprattutto Tiraboschi, che ha ereditato la cattedra di Biagi all’Università di Modena, quel Tiraboschi che fu uno degli obiettivi delle Nuove Brigate Rosse, con tanto di pedinamenti e possibili talpe in facoltà, i suoi articoli di giornale collezionati dai terroristi come prova della sua colpevolezza e quel viaggio fatale sul treno per Arezzo in cui rimase ucciso il poliziotto Emanuele Petri. “Il mio è un caso un po’ anomalo perché ho portato avanti per anni le tesi di Biagi”, dice Tiraboschi. “Ma c’è ancora un odio molto profondo per tutta quella stagione”. Lo sente ancora, professore? “Accidenti sì. Basta andare nelle zone di crisi in Toscana, nel Lazio, nelle periferie. Quando arrivi a un convegno e c’è una folla che ti aspetta e ti grida ‘venduto’. L’ostilità più brutta l’ho percepita quando sono andato a Casarano, in Puglia, un territorio difficile. Ho visto l’odio degli operatori dei servizi di collegamento provinciale, dipendenti pubblici, che ci dicevano ‘non venite a illudere i ragazzi che si può trovare lavoro’, ‘non portate voglia di cambiare’. Matteo Renzi ha fatto cose che prima era impossibile fare. Ma girando l’Italia sento a pelle questo odio, nei convegni, nei seminari, nelle scuole. Sui temi del lavoro c’è una sensibilità profonda. La colpa è del lavoro che manca, lavoro sfruttato, lavoro precario. E la percezione che nonostante tante riforme il lavoro sia ancora una chimera cementa un blocco sociale molto forte”.
E’ vero che Biagi si sentiva solo? “Sentiva che c’era qualcosa che non andava, le telefonate di minacce, ma anche nei due e tre anni in cui ha lavorato al comune di Milano e poi al governo: è l’isolamento che lo aveva ferito. E’ questo che sento anche io di più oggi. Sei da isolare se ti occupi di liberalizzazione del mercato del lavoro. E già questa è una violenza incredibile. E poi c’è la questione dell’integrità fisica, che va in parallelo con l’intimidazione. C’è questo tentativo di creare un cordone sanitario verso figure di spaccatura e innovazione. E poi c’è la forte tensione con una parte del sindacato, in parte ultimamente ricucita con la Cgil grazie a Susanna Camusso. Su progetti e convegni se vedono il nome ‘Tiraboschi’ non si fa, non si invita, perché una parte del sindacato è contraria. Dopo la morte di Biagi ruppi con la Cgil, venne Sergio Cofferati e io, inesperto, non esitai a segnalare il disagio di Biagi rispetto al clima che era stato fomentato da parte della Cgil. Da allora c’è stato un veto totale”. Ha avvertito ostilità accademica attorno alla sua persona? “Ho avuto una forte rottura con l’ambiente universitario. Nel portare avanti le idee di Biagi sono appena tollerato, nonostante ci arrivano finanziamenti europei e privati. Basta pensare che oggi all’Università di Modena, intitolata a Marco Biagi, quasi nessuno sa chi sia Biagi. Queste persone sono morte per che cosa? Biagi è morto a causa di un clima di odio che aveva fomentato la dissoluzione del suo pensiero”. Al professor Tiraboschi non va giù l’ipocrisia. “Oggi la Fondazione Biagi è governata da quella regione Emilia Romagna che, quando Biagi era vivo, non lo invitava. E’ governata da quella accademia che, quando Biagi era vivo, non lo chiamava ai convegni”.
Perché il giuslavorista corre un rischio? “Il lavoro ha un dato tecnico e legislativo e allo stesso tempo è popolare, comune. Cosa blocca la crescita, gli investimenti e la produttività? Il giuslavorista si occupa del diritto vivente e ha avuto questo ruolo di tradurre più voci in una proposta di legge. Sono figure rare. Il documento dei servizi segreti, pubblicato da Panorama nei giorni precedenti l’omicidio Biagi, parlava di ‘figure di raccordo’ fra la politica, il governo, il sindacato, le parti sociali e l’università. Così oggi in Italia è abitudine che, quando c’è un convegno sui temi del lavoro, ci siano anche sette otto auto della polizia o dei carabinieri”.
Cosa ha significato l’assassinio di Biagi? “Un ritardo di quindici anni di scelte fatte sul mercato del lavoro”, continua al Foglio il professor Michele Tiraboschi, sotto scorta da quattordici anni. “Mentre nel 2003 la Germania faceva le riforme, in Italia si ammazzava Biagi”. Secondo Tiraboschi, una certa cultura antagonista che portò all’uccisione di Biagi è ancora viva nel paese. “Basta vedere le scene per l’inaugurazione di Expo a Milano. Furono attaccate le vetrine delle agenzie interinali, i moderni mercanti di braccia. E’ diversa, meno ideologica, non c’è più il Pci, le fabbriche, la classe operaia. Walter Tobagi scrisse un libro, ‘A cosa serve il sindacato’, in cui parlava del sindacato nel fare veto ma incapace di capire le grandi trasformazioni. Io ricordo benissimo i bulloni tirati in testa ai sindacalisti che parlavano bene della legge Biagi e che venivano fatti girare scortati”. Lei ha provato la stessa solitudine? “Biagi era socievole, io sono chiuso e ci sto bene nella solitudine”. Ha avuto rimpianti? “Nel 2007 ho avuto una forte lacerazione con la Fondazione Biagi. Mi sono trovato solo quando dovevo decidere cosa fare, se vivacchiare sul nome di Biagi con la normalizzazione oppure andare avanti. Biagi, diversamente da altre figure, non lo ricordi il giorno del convegno una volta all’anno. Biagi lo senti in continuazione su tanti temi. La sinistra oggi ripete, ‘un conto è Biagi e un conto è la legge’. Non è così. Non è un santino Biagi, è rimasto molto del suo progetto”. Cosa c’era scritto negli articoli che il brigatista Mario Galesi aveva con sé quando venne ucciso sul treno per Arezzo? “Erano alcuni miei articoli per il Sole 24 Ore sulla legge Biagi”. Tiraboschi vorrebbe che l’Italia si ricordasse delle forze dell’ordine che hanno seguito, protetto e che hanno pagato con la vita, come Petri. “Non hanno vissuto esistenze facili anche loro”.
Anche lei ha pagato un prezzo nell’esercizio delle sue idee. “L’autocelebrazione non mi è mai piaciuta. Scrivi leggi che incidono sulle vite umane, cosa c’è di più bello? Federico Mancini, che aveva lavorato con Bettino Craxi e che aveva formato Biagi, diceva che le cose belle nella vita sono la propria squadra di calcio che vince, una bella famiglia e mettere in pratica le proprie idee. Oggi abbiamo una scuola di dottorato, nata nel 2006, da cui sono usciti 270 giovani. Abbiamo provato a cambiare il modo di fare impresa e sindacato. E’ una soddisfazione bellissima”. Lei riuscirebbe oggi a fare quello che fa senza un po’ di tutela? “Penso di no. Dopo la vicenda Biagi, devi essere sereno e sapere che sei protetto”.
L’editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco non è stato il primo docente minacciato all’Università di Bologna. Era già successo al pedagogista Andrea Canevaro, studioso mite e stimato, ma “colpevole” di aver tenuto corsi per le forze dell’ordine. In risposta a questa sua evidente attività sovversiva, i collettivi studenteschi tappezzarono i muri della presidenza della Scuola di psicologia e scienze della formazione, in via Filippo Re, con foto di “cariche e pestaggi” e i volti tumefatti di Carlo Giuliani e Stefano Cucchi.
Al professor Giacomo Cao, docente di Ingegneria all’Università di Cagliari, hanno fatto di peggio. Hanno riempito i muri della sua facoltà di slogan tipo: “Fuori i militari dalle università” e “non lasciare in pace chi vive di guerra”. E una grande foto di Cao, sotto una scritta in nero: “E’ lui”. Ecco il mostro. Il servo dell’industria militare. La “colpa” del professor Cao è di essere il presidente del Dass, il Distretto aerospaziale sardo. Il suo dipartimento è stato tappezzato di manifesti che lo accusano di alimentare l’industria bellica in Sardegna. “L’università si rende complice dello scempio del territorio”, si legge in uno dei manifesti, dove campeggia anche un inquietante disegno di due mitra accanto a un libro. “Mi hanno preso di mira in qualità di docente universitario ma anche di presidente del Distretto aerospaziale”, dice Cao al Foglio. “Ma hanno individuato un bersaglio assolutamente sbagliato, perché il Distretto aerospaziale sardo non ha attività progettuali legate al mondo militare. All’università ci sono stati attestati di stima. Io non ero presente quella mattina, sono entrati questa decina di studenti, e hanno iniziato ad appendere questi manifesti contro di me, in cui mi identificavano come il docente che lavorava con i militari. Il Distretto aerospaziale sardo fa molte cose, è un soggetto che ha varie attività che lo porteranno a dare un contributo alla crescita dell’aerospazio in Sardegna. Abbiamo il radiotelescopio più grande d’Europa. Facciamo certificazioni sui droni, inoltre. Il progresso fa paura, forse”.
Il professor Paolo Macry, docente di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, non avrebbe mai pensato che i collettivi avrebbero fatto un blitz per contestargli, come a Panebianco, un articolo sul Corriere della Sera.
“A cosa si oppongono gli episodi di conflittualità esplosi ultimamente a Napoli?”, aveva scritto Macry nel Corriere del mezzogiorno. “A una soluzione del problema dei rifiuti. Alla messa a profitto dell’area di Bagnoli. Allo sviluppo del turismo di massa. Alla costruzione di centrali elettriche. Alle trivellazioni in Campania. Ovvero a ogni ipotesi di accrescimento della ricchezza locale”. “Scrivo il mio solito editoriale, sono quasi vent’anni che non manco una domenica”, racconta il professor Macry al Foglio. “Quella volta il tema è l’area dismessa di Bagnoli e la sua sempiterna ristrutturazione. In particolare, parlo dell’opposizione che al tentativo renziano di smuovere le acque stanno portando i soliti comitati locali, i comitati del ‘No’, per intenderci. Dentro ci sono molti studenti. La mia colpa è che dico che gli antagonisti sono come sempre i veri reazionari. La qualifica di reazionari li fa evidentemente imbufalire, perché un paio di giorni dopo, mentre sto facendo un appello di esami, si presentano in dipartimento. Sono pochi, una decina, ma invasivi, categorici e minacciosi. ‘Lei ci deve una risposta a quello che ha scritto’, dicono a muso duro. E noto subito che c’è anche il cameraman che non manca mai nei processi del popolo. Una cosa sgradevole. Io rispondo che la mia attività di pubblicista non c’entra con quella di docente e che ora sto facendo esami. Loro insistono, entrano nella stanza degli esami, sono passabilmente sgarbati. ‘Stia attento’, dicono. Io di rimando rispondo che non se ne parla. Loro invece vogliono il confronto fatale ad horas. Allora sospendo gli esami, perché la loro presenza mi impedisce di continuare a farli. Quest’episodio è il culmine di una coralità di reazioni spropositate. Gli insulti sui social network, le minacce sui siti, l’intimidazione all’università”.
Al professor Franco Battaglia, docente di Ingegneria all’Università di Modena, è bastato partecipare una volta alla trasmissione “Anno Zero” di Michele Santoro per ricevere la denigrazione pubblica di Beppe Grillo e diventare un appestato.
“Dopo che sono stato invitato da Santoro a esprimere il mio parere sul nucleare, su Facebook sono nati gruppi come ‘licenziamo il professor Battaglia’”, racconta il docente al Foglio. “Il preside della facoltà, Cantore, fu subissato di richieste di licenziarmi e per non farmi parlare. Anche da parte dei miei colleghi ho avuto atteggiamenti strani. In via ufficiale non c’è stato nulla che prendesse la mia difesa. Altri risposero ‘il professor Battaglia non fa parte della nostra facoltà’. Il rettore Aldo Tomasi prese ufficialmente le distanze, tenendo a dire che ciò che esprimevo non era l’opinione ufficiale dell’università, come se l’università avesse un cervello e un parere. La Biblioteca scientifica dell’università invitò a parlare un docente contrario alle mie tesi, senza che mi venisse concesso di parlare. Un gruppo di studenti di Medicina inviò una rimostranza al rettore e protestarono contro il mio insegnamento. La cosa peggiore del linciaggio di Grillo è stato dire che io stavo mentendo perché pagato dalle multinazionali. Io insegno a duecento studenti e questi vogliono sapere se dico cose false perché mi pagano oppure perché faccio lezione con coscienza e scienza. Sono stato inondato di e-mail con insulti e minacce. La mia automobile è stata presa a sassate. Viviamo in un clima in cui non puoi esprimere liberamente, davvero, il tuo pensiero”. Fra le lettere ricevute dal professor Battaglia, alcune recitano: “Sei una persona indegna di respirare”. “Lei è una vergogna per il mondo accademico italiano e per la sua famiglia”. “Venduto”. “Sei un certificato vivente dello stato di marcescenza morale, intellettuale, civile e politica di questo paese”. “Per il denaro non si ha vergogna di niente”. “Spero che faccia solo le pulizie”.
C’è una professoressa che ha pagato caro le proprie idee su Israele. Si tratta di Daniela Santus, che ben prima di Angelo Panebianco ha dovuto tenere lezione protetta dai blindati della polizia in quella grande città laica, fiera del suo stampo democratico e antifascista, che è Torino. La bacheca centrale dell’Università è stata decorata da proteste contro la “Santus sionista”, così come lo studio di Panebianco è stato imbrattato con la scritta “Free Palestine” dagli antagonisti. “Sono semplicemente una professoressa di Geografia” racconta Santus al Foglio. “Una di quelle persone che devono convivere con gli strafalcioni più grossolani di studenti che pensano l’Algeria sia un’isola, che l’islam sia nato in Groenlandia e che la Striscia di Gaza sia territorio occupato da Israele. Un Israele talmente grande che vi scorrono il Nilo, il Tigri e l’Eufrate. A integrazione dell’attività didattica, sono solita organizzare lezioni con ospiti nazionali e internazionali”.
Di fronte al boicottaggio di Israele propagato dalle aule torinesi, qualche giorno fa Santus ha chiesto “che cosa sarebbe accaduto se un gruppo di studenti e docenti avesse chiesto un’aula per propagandare il boicottaggio delle istituzioni palestinesi”. Lei non demorde. D’altronde è abituata agli attacchi. I suoi guai iniziano dieci anni fa.
Santus era convinta che tutto sarebbe andato per il meglio e che non ci sarebbero stati guai nell’invitare Elazar Cohen, vice-ambasciatore israeliano a Roma. “Sapevo che a Pisa e a Bologna gli studenti avevano duramente contestato esponenti israeliani, sapevo che in alcune università si raccoglievano firme per boicottare i relatori ebrei d’Israele e per impedire loro di parlare, ma a Torino – nell’Università di Norberto Bobbio e di Primo Levi, dove da sempre il dialogo trova spazi privilegiati – non sarebbe certo accaduto! Per di più, in questo caso, non si trattava di una conferenza aperta al pubblico (motivo per il quale non era stata fatta pubblicità, né erano stati messi al corrente gli uffici del Rettorato), ma di una semplice lezione rivolta agli studenti del mio corso di Geografia: l’intervento di un esperto e niente più, come l’autonomia della didattica permette a ogni singolo docente. Mi sbagliavo. Infatti la lezione poté regolarmente svolgersi soltanto grazie agli agenti di polizia che, con la dovuta discrezione, riuscirono a tenere fuori dall’aula i facinorosi che si sfogarono, al termine dell’incontro, con un lancio di uova sull’auto del diplomatico e alcune altre ‘amenità’. Uno dei contestatori mi chiese per quale motivo io facessi ‘propaganda per uno stato che uccide i bambini palestinesi’, un altro mi disse che il terrorismo palestinese era la ‘giusta lotta di liberazione di un popolo oppresso’ e si augurò che anch’io potessi rimanerne vittima, un altro ancora avrebbe voluto ‘bruciare vivi tutti i sionisti’, ma ciò che soprattutto premeva loro era che non li si ritenesse antisemiti”.
Persino alla presenza del preside stesso Santus venne minacciata di subire “contestazioni” durante le lezioni future se avesse osato continuare a parlare d’Israele. Le bacheche universitarie vennero ricoperte di manifesti, comparve una stella a sei punte uncinata, i “contestatori” costruirono un muro che tagliò in due l’atrio del palazzo universitario. “Alcuni colleghi – pochi per la verità – mi offrirono solidarietà, altri no. Gianni Vattimo si chiese addirittura come io – docente razzista – potessi insegnare e firmò l’appello per togliere la possibilità di parola agli israeliani presso l’Università di Torino”. Poi, di recente, Santus viene nuovamente minacciata, stavolta per una banale e mediocre dissertazione di laurea. “Proviamo a pensare cosa sarebbe accaduto se in una seduta di tesi, assente il primo relatore per malattia, la presidente di commissione avesse notato che il laureando, con una tesi su Dante, aveva posto Beatrice all’inferno e avesse chiesto di rinviare la tesi di un giorno o due per dare il tempo al relatore di presenziare alla discussione e, magari, spiegare il perché Beatrice era stata posta all’inferno. Avrebbe ottenuto i titoli dei giornali? Non credo. Eppure, quando invece si parla di Israele, succede il finimondo. Ma le cose sono andate esattamente così”.
Santus era stata nominata supplente in commissione proprio per l’assenza di una docente. “Interessata all’argomento, ho letto alcune pagine. Ho notato che la maggior parte delle fonti bibliografiche era in arabo e che gli autori israeliani citati erano quelli dell’estrema sinistra israeliana. I toni erano molto forti: si insisteva molto sul termine sionista in accezione negativa, si gettava la colpa dell’impossibilità al raggiungimento della pace sulle destre israeliane e non si faceva cenno alle migliaia di cittadini ebrei uccisi negli attentati palestinesi. Si può perciò comprendere che la necessità della presenza della prima relatrice o almeno della sua relazione fossero fondamentali. Se ne è discusso tra colleghi e il Direttore – anche conoscendo i miei studi e la mia sensibilità sull’argomento – si offrì di sostituirmi in attesa dell’arrivo della relazione. Anche qui, prassi regolare. Ammetto di essermi sentita sollevata, anche perché avrei provato forte imbarazzo a firmare il certificato di laurea delle studentesse senza porre loro domande in merito, ma non ritenevo giusto porre domande che avrebbero potuto inficiare la loro valutazione senza la presenza della prima relatrice. Sarebbe stato un po’ come interrogare un imputato senza il suo avvocato: non si fa. E non lo si fa il giorno della tesi, che dev’essere un giorno di festa. Forse in questo sono ingenua: altri ne avrebbero approfittato. Ma a me non sembrava corretto”.
Apriti cielo. “Da quel giorno, fuori dal mio studio sono comparse scritte ‘Palestina libera’ e i muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di mie foto fuse con quella di Netanyahu. Una situazione davvero assurda, anche perché a me Netanyahu non piace per molti motivi. La follia è degenerata, da chi scriveva sui siti stessi dei quotidiani: ‘Chiedo l’immediato licenziamento di questa docente pseudo-italiana, che si faccia pagare lo stipendio dall’entità criminale a cui appartiene’ a chi inviava minacce alla mia mail personale. Sono giunte minacce anche dalla Francia. I collettivi autonomi hanno addirittura messo in piedi una raccolta firme per chiedere il mio licenziamento, ovvero il licenziamento della docente che ‘si è rifiutata di laureare due studentesse che avevano scritto una tesi sulla Palestina’. Follia! Bugie che ripetute mille volte diventano realtà”.
Daniela Santus dice di non voler mollare. “Poi però penso che non ne vale la pena: la terra deve essere piatta e l’Isonzo deve scorrere nella terra di Canaan. Continuerò a occuparmi di cucina, magari riflettendo sull’estensione geografica della coltivazione del peperone quadrato di Motta”.
Allora, forse, cesserebbero le contestazioni, le minacce, lo scherno. Basterebbe rientrare nei ranghi, non parlare di flessibilità nel mondo del lavoro, scrivere editoriali ideologicamente corretti sul Corriere della Sera, elogiare l’eolico anziché l’atomo, praticare l’equidistanza sul medio oriente. Allora, forse, il gregge accademico ritornerebbe mansueto, i colleghi di facoltà nuovamente loquaci e non ci sarebbe più alcun timore quando si scende di bicicletta, sotto casa, mentre si cercano le chiavi. L’ultima cosa che fece Marco Biagi. Quel mite nemico del popolo.
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