David Cameron tra Angela Merkel e François Hollande (foto LaPresse)

Dopo Ankara, ora sono Parigi e Londra ad angustiare Merkel

Marco Valerio Lo Prete
L’inquietudine tedesca su Parigi spettatrice (senza spread), Draghi temerario e Londra in rottura

Roma. Da settimane, e ininterrottamente fino a ieri pomeriggio, il baricentro del dibattito pubblico europeo si è spostato a oriente, a cavallo tra Grecia e Turchia. E’ lì che la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha sospinto tutti i leader europei, volenti o nolenti, per ricalibrare la sua politica della “porta aperta” verso i rifugiati siriani, quella annunciata con grande fretta nel settembre 2015. Con il tempo si giudicheranno gli effetti pratici della nuova scelta di Berlino, controfirmata dal governo di Ankara, sui flussi di persone in ingresso nel Vecchio continente. Già oggi, intanto, si possono osservare a occhio nudo i riflessi geopolitici: la Turchia è d’improvviso in posizione di forza rispetto all’Unione europea, per volontà innanzitutto di Berlino che fino a qualche mese fa era invece tra le cancellerie più fredde rispetto a un avvicinamento con Ankara.

 



 

Dal punto di vista tedesco, tuttavia, anche quest’ultimo tour de force orientale è rivelatorio di problemi non minori al centro dell’Unione europea. La Francia, scrive l’Economist, ha mantenuto un atteggiamento da “bystander”, cioè da passante sbadato, in tutta questa crisi migratoria. Nel 2015 Berlino ha accolto oltre un milione di richiedenti asilo, Parigi quasi ottantamila, e il primo ministro Manuel Valls a febbraio ha definito le scelte tedesche come “insostenibili nel lungo termine”. Lo stesso Valls che, nell’ottica degli osservatori tedeschi che seguono la crisi economica dell’euro, vive quasi su un mondo parallelo: impegnato a fronteggiare piazze riempite di giovani e sindacalisti, e troppo lesto nel rimangiarsi pezzi di una riforma del lavoro a lungo attesa. Una bolla, quella francese, che paradossalmente è la stessa Germania a garantire.  

 

Il dibattito francese sulla politica economica e sulle riforme strutturali quasi sempre rinviate appare inconcludente, se non addirittura snervante, quando visto da Berlino. Nella Francia del tabù sempiterno delle 35 ore, per esempio, il governo socialista ha già fatto marcia indietro sul tetto alle indennità di licenziamento decise dai giudici del lavoro e sulla possibilità per le aziende con meno di 50 dipendenti di passare unilateralmente a un orario di lavoro flessibile per aggirare su base annua le 35 ore. Il rapporto deficit/pil di Parigi continua a sfuggire a tutti i richiami di Bruxelles. Il debito pubblico ha raggiunto il 97 per cento del pil. Eppure l’ormai celebre spread, il differenziale tra i rendimenti dei titoli sovrani francesi e quelli tedeschi, che teoricamente dovrebbe punire i governi con conti pubblici insostenibili, non si muove di un millimetro. Merito di Mario Draghi? Non esattamente, o non solo. Lo spread tra Oat e Bund non si è mai mosso – nemmeno nel tempestoso 2011 – in ragione di una garanzia implicita, tutta politica e made in Deutschland: mai e poi mai la Germania lascerà cadere la Francia sotto i colpi della speculazione internazionale, lo si vide già ai tempi del Sistema monetario europeo, quando invece la Bundesbank abbandonò al suo destino un altro paese fondatore come l’Italia. Il motore franco-tedesco non si tocca, anche se i governi francesi se ne approfittano per vivacchiare sulle riforme economiche o per comportarsi da “passanti” nelle crisi che investono la Germania. Ma fino a quando tutto ciò sarà politicamente sostenibile? Nella prima economia del continente monta infatti la polemica nei confronti della Banca centrale europea e delle sue politiche espansive tutte tese – dicono i critici – ad alleviare gli sforzi necessari nei paesi meno competitivi. Così per la Bundesbank diventa sempre più labile il confine tra “politiche non convenzionali” e finanziamento dei deficit attraverso la politica monetaria, uno dei capisaldi dell’euro per come nacque sotto gli auspici di Mitterrand e Kohl. Se a ciò si aggiunge che il Fiscal compact, fortemente voluto da Merkel alla fine del 2011, è lungi dall’essere preso alla lettera nell’opera del risanamento dei conti, si può intuire la disillusione crescente nell’establishment tedesco.

 

E’ in questo clima che si riacutizza, sempre in Germania, la preoccupazione per quanto accade sul fronte opposto al limes turco, in un altro dei grandi paesi dell’Unione europea, cioè nel Regno Unito. Il premier inglese David Cameron, dopo le concessioni strappate a Bruxelles per allontanare la “ever closer union”, ha convocato per fine giugno il referendum popolare sulla possibile uscita dall’Ue. Nelle intenzioni del leader conservatore, una data così vicina nel tempo doveva sparigliare il campo dei favorevoli alla Brexit; invece i sondaggi mostrano per il momento un elettorato diviso quasi a metà. Sia Merkel sia Draghi confidano da settimane che è questa, oggi, l’incognita numero uno sulla strada dell’integrazione. Le sorti del club europeo non si decidono ad Atene, ormai si è capito: lì perfino un referendum antiausterity, convocato da un leader scapestrato, può essere addomesticato da Berlino e da una stretta alla liquidità bancaria d’emergenza decisa a Francoforte. Londra è un’altra storia: può decidere di uscire dalla porta principale dell’Ue, con tutte le conseguenze del caso. Un precedente pericoloso, specie se si realizzasse senza chissà quali scossoni funesti per Londra. Pericoloso, soprattutto, per l’appeal che potrebbe avere sulle élite tedesche, quelle che guardano impotenti la Francia indolente, che lamentano il tradimento degli accordi originari sulla moneta unica, e che non hanno smesso di ipotizzare un euro-marco sganciato da un euro-sud, vale a dire una dissoluzione dell’Europa da sancire a Berlino.