Corruzione stampata
Dai Panama papers all'inchiesta di Potenza: ecco il ruolo ipnotico dei giornali italiani quando si tratta di corruzione. Gli studi e le analisi di Banca d'Italia, Economist e università di Perugia.
Roma. Panama papers, inchiesta di Potenza, traffico d’influenze e chi più ne ha più ne metta. In poche ore, su web e carta stampata, è tornata a imperversare la parola “corruzione”. Sull’effettivo verificarsi del reato in questione o di fattispecie affini staremo a vedere, probabilmente ci vorrà tempo per avere qualche certezza (considerato per esempio che due giorni fa sempre il tribunale di Potenza, per una vicenda diversa dalle indagini in corso, ha condannato in primo grado gli ex vertici di Total, dopo ben otto anni). Nel frattempo si può essere sicuri che lo storytelling attorno alla corruzione – a maggior ragione se basato su proclami e annunci infondati ma roboanti – aumenterà la convinzione degli italiani di vivere in un paese oltremodo corrotto. Quest’ultima è la conclusione tranchant di uno studio condotto da due economisti della Banca d’Italia, Lucia Rizzica e Marco Tonello.
L’Economist, mai tenero con l’Italia, specialmente quella vista con le lenti del prestigioso Estero, questa volta ha preso sul serio i due studiosi e ha scritto che “la cattiva stampa fa un disservizio all’Europa”, che “le nostre percezioni sulla corruzione sembrano essere più sensibili agli annunci che ai fatti veri e propri”. Rizzica e Tonello incrociano sondaggi di diversa natura e articoli tratti da 30 testate giornalistiche italiane. Alla luce di ciò dimostrano che un cittadino qualsiasi che sia stato “esposto” – immediatamente prima di essere intervistato – a notizie relative a eventi di corruzione, ha in media una propensione maggiore a definire l’Italia come un paese corrotto. E questo ovviamente a parità di condizioni esistenti nel nostro paese. Non è finita qui. Tale meccanismo – cioè quante più notizie leggo sulla corruzione, tanto più riterrò di vivere in un paese corrotto – funziona solamente con le notizie di tipo sensazionalistico (“claims”) e non con quelle fattuali (“facts”).
Alla ricerca della Banca d’Italia sono allegate, a mo’ di esempio, due prime pagine rispettivamente di Repubblica e del Corriere della Sera: sulla prima campeggia la notizia di un’inchiesta su Silvio Berlusconi, sulla seconda invece si sintetizza “uno studio europeo” con il titolo “Corruzione, peso da 60 miliardi”. Nel primo caso ci troviamo di fronte a una notizia fattuale, nel secondo di fronte a una notizia sensazionalistica. I ricercatori di Palazzo Koch ricordano infatti che i famosi “60 miliardi di corruzione” dell’Italia sono poco più di una leggenda. Che passa di rapporto in rapporto, di titolo in titolo, ma sempre leggenda rimane: come hanno ricordato Davide De Luca sul Post e Michele Polo su Lavoce.info, quel numero iniziò a circolare attraverso un rapporto del Saet al Parlamento in cui si leggeva di “stime che si fanno” e di “opinioni”; poi fu ripreso più volte e dato per certo dalla Corte dei Conti; passando per varie testate, si insinuò fin dentro i corridoi brussellesi della Commissione europea che successivamente lo ha rilanciato a uso e consumo delle solite testate giornalistiche che stavolta lo hanno perfino ingigantito sostenendo che si trattasse della “metà di tutta la corruzione europea”. Così le “sensazioni” vengono spacciate per “fatti”. E Bankitalia sottolinea che proprio questo tipo di sensazionalismo ha molta presa sul lettore. Sintetizza l’Economist: “Il punto di vista degli italiani sulla corruzione sembra essere plasmato più dalle ciance che dai fatti”.
Il problema è che su rilevazioni simili si fondano indagini demoscopiche, perciò contestate da alcuni studiosi, come quelle di Transparency international. Sondaggi fondati su percezioni falsate e che vengono rilanciati a destra e a manca falsando ancora di più quelle percezioni su cui si basano i sondaggi successivi. Un meccanismo quasi infernale che i giornalisti avrebbero quantomeno il compito di non alimentare. Ci riusciranno? Difficile, se si crede a un altro studio, pubblicato sul primo numero del 2016 della rivista il Mulino, già segnalato su queste colonne da Massimo Bordin. Paolo Mancini e Marco Mazzoni, dell’Università di Perugia, dopo aver esaminato 46.239 articoli apparsi tra il 2004 e il 2013 su Repubblica, Corriere della Sera, Giornale e Sole 24 Ore, arrivano infatti a due conclusioni. La prima: in nessun paese europeo come l’Italia si parla così tanto di “corruzione”. La seconda: “Si parla di corruzione essenzialmente quando essa coinvolge ambiti d’indagine giudiziaria”, con buona pace del “tanto osannato giornalismo investigativo”. Con media tendenzialmente sensazionalisti e al traino delle procure, lo scandalo (percepito) s’ingrossa.
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