Il figlio del Padrino mente fisso, e Vespa non ha gli occhi di Diane Keaton
Mi piacciono di più gli sguardi nei film che le discussioni sulla morale del giornalismo e sulle retoriche dell’antimafia. Questione di gusti, dicono di più. Alla fine della prima parte del Padrino Kay fissa gli occhi negli occhi Michael, il figlio di Don Vito: “Sei stato tu a uccidere il marito di tua sorella?”. Incontra gli occhi senza trasparenza di Al Pacino: “No!”. L’altra sera a Porta a porta gli occhi bruni e velati di mestiere di Vespa non avevano l’urgenza degli occhioni di Diane Keaton, mentre incrociavano quelli inespressivi e le risposte inespresse di Salvo Riina, il figlio del corleonese: occhi troppo fissi, meno hollywoodiani, più bovini. Gli occhi di Vespa non avevano la stessa disponibilità innamorata a farsi ingannare. Ma non avevano nemmeno la stessa urgenza di farsi dire la verità, o una verità. Del resto, Salvo avrebbe mentito lo stesso. Come Michael. Non per una sceneggiatura diabolica, ma per un’inestirpabile ottusità antropologica. Che forse poi è la mafia in quanto tale, ma non saprei.
Comunque sia, il dibattito altrettanto antropologicamente ottuso sulla liceità morale e aziendale di intervistare il figlio del capo dei capi alla Rai (sul Corriere l’ha intervistato Giovanni Bianconi, nessuno ha obiettato) ha un solo vincitore logico: Bruno Vespa. Chi altri non avrebbe fatto lo steso, al suo posto? Glielo hanno riconosciuto anche colleghi per solito micragnosi nel fare le pulci agli standard etici altrui, come Marco Travaglio e Massimo Gramellini. Intervistare Riina jr. non è proprio come intervistare Al Baghdadi, ma chi direbbe no? Al di là della logica professionale, Vespa vince per una ragione di filosofia. Al giornalismo che si sente incaricato di tracciare i confini del bene e del male, e intende se stesso come una sorta di tribunale di grado zero, in attesa che i tre gradi di giudizio tirino le conseguenze; oppure si ritiene tribunale di ultima istanza (poi c’è solo Dio), per condannare o assolvere laddove i tre gradi suddetti abbiano fallito (la retorica del giornalismo antimafia), è di gran lunga preferibile il giornalismo che fa il suo lavoro, che intervista e racconta e sospende il giudizio, nel caso. Meglio un Riina jr. alla porta che un Ciancimino jr. all’orecchio.
Poi, siccome preferisco gli sguardi nei film, c’è da aggiungere questo: che dipende da come si guarda, e da cosa si chiede. Quelle di Salvo Riina a Vespa – “Condivido l’arresto di mio padre? No, perché è mio padre. A me hanno tolto mio padre”. La mafia? “Non so cosa sia” – sono risposte inutili di un uomo non indispensabile, sulla scena pubblica. Se non ha nulla da dire, o vuole difendere l’impossibile, aggrappato alla sua religione di mafia come un bandito dell’Isis alla sua, poteva tacere. Si poteva non chiedergliene conto. E il giornalista, che per mestiere non giudica, ma può decidere tra ciò che vale la pena raccontare e ciò che può finire nel cestino, avrebbe potuto scegliere. Come Diane Keaton, Vespa avrebbe fatto meglio a non fargli la domanda, per non dover ascoltare la risposta.
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